ROMA – Siamo in Russia, nel XIX Secolo. Antonina Miljukova (Alyona Mikhailova), una giovane donna ricca e brillante, convola a nozze con il geniale compositore Pyotr Tchaikovsky (Odin Lund Biron), in Italia in passato sui dischi spesso indicato anche come Ciaikovski. Ben presto però, il suo amore per lui si trasforma in un’ossessione. Nonostante il vincolo che li unisce, Antonina verrà infatti violentemente respinta dal marito. Consumata dai suoi sentimenti, accetta di sopportare tutto pur di restare con lui, ma dovrà pagare un caro prezzo. Parte da qui La moglie di Tchaikovsky, il nuovo film di Kirill Serebrennikov ad un anno di distanza da quel Petrovy v grippe rimasto inedito qui in Italia, al cinema ora per I Wonder Pictures.
Un progetto a lungo ricercato da Serebrennikov: «Perché per me Tchaikovsky è come un oggetto volante non identificato», ha spiegato il regista russo, di cui ancora aspettiamo l’atteso Limonov (ve ne abbiamo parlato qui). «Tutti sanno chi è ma nessuno sa niente di lui. Tranne Alexander Poznasky, professore dell’Università di Yale, il suo libro in due volumi. Gli sono estremamente grato, ha compiuto un lavoro colossale per ripristinare la vita di Tchaikovsky giorno dopo giorno. Avevo scritto il primo draft di La moglie di Tchaikovsky tempo fa, ma è rimasto a lungo nel mio cassetto, in attesa di vedere la luce, quando le circostanze si sono riunite ho fatto il necessario per renderlo fattibile».
Da qui l’intuizione di Serebrennikov: raccontare della figura di Tchaikovsky attraverso gli occhi di chi ha provato a stargli accanto: Antonina Miljukova, appunto: «Perché credo sia un modo interessante di parlare di qualcosa o qualcuno di grande. Non ponendosi al di sopra di lui, trascurandolo, ma scrutandone il riflesso che rimanda…». Una figura storicamente controversa, memorabile, già resa leggenda cinematografica da Ken Russell che in L’altra faccia dell’amore del 1970 – con Richard Chamberlain e Glenda Jackson nei ruoli portati in scena da Biron e la Mikhailova in La moglie di Tchaikovsky – ne riabilitò il nome e la dimensione umana. Per anni infatti fu fatta passare per una ninfomane delirante, una donna debole.
La Miljukova, per chi non lo sapesse, fu una sua ex-allieva che, per volere del destino, quando Tchaikovsky fu sul punto di iniziare a comporre uno dei suoi massimi lavori (l’Eugenio Onegin) gli inviò, parallelamente, una lettera-dichiarazione d’amore che funse da ispirazione eccellente per l’incipit dell’opera. Un collegamento eccezionale tra realtà ed arte, vita e ideale, di cui Serebrennikov ripropone lo spirito in La moglie di Tchaikovsky contaminando il mondo là fuori di spiazzanti sequenze oniriche. Per Tchaikovsky la coincidenza fu abbastanza da procedere a un matrimonio fulmineo con la Miljukova, cosa che avvenne, effettivamente, il 18 luglio 1877.
Nonostante tutto però fu un disastro su tutta la linea quel matrimonio: «Da un punto di vista fisico mi è diventata assolutamente ripugnante. Avrei potuto strozzarla in più occasioni…». Costantemente in preda ad una fortissima repulsione verso la Miljukova, Tchaikovsky scelse di scivolare nella Moscova tentando un suicidio indiretto che si risolse, tuttavia, con un semplice raffreddore. In termini psichici però il gesto lasciò il segno gravandolo di un esaurimento nervoso. Punto qui di cui il film racconta semplicemente facendolo svanire, nel nulla, come fosse un’essenza ectoplasmatica.
Il matrimonio fu visto da Tchaikovsky come una medicina per curare l’omosessualità. Questo produsse null’altro che frustrazione e disperazione, tanto da farlo trasalire ovunque, che fosse in treno o al ristorante, quando leggeva negli innocenti sguardi di sconosciuti disprezzo e condanna. Un matrimonio di convenienza quello al centro di La moglie di Tchaikovsky, una copertura sociale nei suoi romanticismi e fatalismi. La Miljukova fu null’altro che una spina del fianco dalla prospettiva di Tchaikovsky, rifacendosi viva in più occasioni dopo la separazione di fatto, con richieste di denaro e minacce.
Una tesi, in realtà, da cui Serebrennikov prende (e di molto) le distanze – così come Russell prima di lui – affidando a una straordinaria Alyona Mikhailova le redini di una donna tutt’altro che debole e ninfomane, preda dei suoi istinti. L’attrice è infatti capace di essere fragile, intensa, vogliosa d’amore, di vita e di risposte dietro all’invalicabile muro di silenzio e dolore procuratole dal geniale (ma problematico) marito Pyotr portato degnamente in scena da un granitico Biron. Da qui Serebrennikov (ri)costruisce in digressione temporale il percorso di un amore disperato e impossibile, dove il momento topico della dichiarazione/promessa d’amore viene macchiato dal rimbombante ronzare di un moscone.
E poi le lettere, gli ammiccamenti, l’impeto dentro, le orecchie appoggiate le porte per ascoltare le dolci note partorite dal genio di Tchaikovsky, che lasciano progressivamente il posto all’incertezza dell’avvenire e ai silenzi invalicabili di un rapporto impossibile fatto di adorazione univoca, distanza fisica oltre che emotiva, annichilimento psicologico e pressioni dell’ambiente circostante. Il tutto avvolto da costruzioni di immagine delicate, intime, dove le luci soffuse orchestrate da un ispirato Serebrennikov sono null’altro che privazioni di calore, immagini fredde, come lo è il posto che la storia ha dato ad Antonina Miljukova. A La moglie di Tchaikovsky il compito di rendervi giustizia.
- PREVIEW | Limonov, Ben Whishaw e la visione di Kirill Serebrennikov
- ROCKCORN | Summer, Serebrennikov e la stagione di Leningrado
- VIDEO | Qui il trailer de La moglie di Tchaikovsky
Lascia un Commento