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Jacques Audiard: «Il mio West, tra Joaquin Phoenix, Leone e i Fratelli Sisters»

Tra John Ford e John C. Reilly, dal buio alla luce: il regista racconta I Fratelli Sisters a Hot Corn

I fratelli Sisters
Joaquin Phoenix, John C. Reilly e Jacques Audiard sul set de I Fratelli Sisters.

ROMA – Elegante, quasi regale nei movimenti, nelle parole. Tutte ragionate e dosate. Quando incontriamo Jacques Audiard, in un albergo nel cuore di Roma, ci aspetta in camicia bianca e foulard al collo, pronto a raccontare I Fratelli Sisters, con John C. Reilly e Joaquin Phoenix. «Un western di formazione», dice. «Nato per volere di John C. Reilly che mi ha fatto scoprire il libro di Patrick deWitt. Non ho dimestichezza con il genere, quindi più che dei paesaggi, ho tenuto conto dei miei personaggi». Così, nel film – che ora trovate in streaming qui – l’estro del regista si allarga tra le praterie ed i confini degli Stati Uniti, ripresi però dall’Europa. Guarda caso, come faceva un altro maestro. «Sergio Leone? In lui c’è un’audacia formale, una capacità di sintetizzare il pensiero. Non abbiamo mai smesso di essere debitori verso di lui, la sua influenza continuerà, per sempre. Con tre o quattro suoni, i costumi, qualche nota, le sue immagini restano impresse. Avrei voluto fargli qualche domanda, sinceramente…».

Sul set de I Fratelli Sisters.

Ne I Fratelli Sisters si immerge nel western. Come ha legato la Frontiera al suo stile?

«Non so dire quale sia il mio stile. Non sto esagerando, non so quale sia. Lo stile, forse è l’idea che si fa il pubblico di un certo autore, e la critica lo sintetizza. Poi c’è lo stile e c’è il tema. Per tematiche, ho la consapevolezza di sapere ciò di cui parlo. Per esempio, ho a cuore il tema dell’eredità. Cioè, come operiamo in merito a ciò che ci viene lasciato. Un tema che si ricollega al cambiamento. Il concetto si rifà alla forma, del resto. Ma io non posso alzarmi la mattina e dire: farò un film nel mio stile. Impossibile, non lo conosco».

Formalismo, il tempo, i piani sequenza, John Ford e i luoghi ideali. Tutto, nell’apertura e nella chiusura del film. Come ha ideato le due scene?

«Quando giro un film non sono in grado di pensare subito a come lo chiuderò. Ho scritto otto versioni diverse del finale, ma finché non sono sul set non so quale farò. L’inizio, invece, era la bozza di come lo avevamo immaginato con Thomas Bidegain. Avevamo ipotizzato un film immerso nella notte, prima che sorgesse il sole della democrazia. Con personaggi che apparivano come lampi, come vampiri. Per il finale, guardando il piano di lavorazione, ho capito che doveva essere girata alla fine delle riprese, non in mezzo. E la sequenza è stata preparata in quattro ore, la notte prima, e girata in due…».

Riz Ahmed e Jake Gyllenhaal in The Sisters Brothers.

Ideando i personaggi, ha tenuto conto di quelli del libro? Possiamo dire ci sia una sorta di doppia visione sugli Stati Uniti? Quelli utopistici e nobili, fino a quelli più istintivi e brutali…

«Il cambiamento dei personaggi è avvenuto dopo, quando ci siamo resi conto che il romanzo tratteggia i co-protagonisti, Jack ed Harmann, senza consistenza. E me ne sono reso conto durante la scelta del cast. Ho fatto fatica a trovare gli altri due attori perché nel libro non erano abbastanza sviluppata la loro parte. Quindi, ho rimesso mano alla sceneggiatura, dandogli spessore e dimensione. Quando si sono sviluppati è stato facile individuare Riz Ahmed e Jake Gyllenhaal. Sono quasi concorrenziali, rispetto ai due fratelli. E sì, hanno apportato l’aspetto dell’intelligenza e della cupidigia nella ricerca di quell’oro che avrebbe formato l’utopia di una società moderna e parallela».

I Fratelli Sisters…

In ordine sparso: Matthias Schoenaerts, Vincent Cassel, Romain Duris, Joaquin Phoenix. Attori che per lei hanno dimenticato la loro forte mascolinità.

«Sì, sono tutti attori diversi, che incarnano una certa virilità. Eppure, arrivando ai miei ruoli, hanno tirato fuori dolcezza. È come se avesse ragione la mia ex moglie, quando dice che filmo gli uomini come se filmassi le donne. Perché cerco sempre l’aspetto più femminile in loro».

Una scena del film.

John C Reilly e Joaquin Phoenix, nel film, riescono ad essere spontanei e a loro modo sentimentali. Perché oggi si fa fatica a trattare le emozioni?

«Devo dire che ho adorato parlassero in quel modo, quasi sbarellando. Sembravano due personaggi di Diderot. I due vivono in osmosi, perché è come se avessero dodici anni. Non sono idioti, però non si sono evoluti. Il film è un racconto di formazione. E l’unica chance di crescere è tornare a casa. Le mie pellicole sono una critica alla mascolinità, basti pensare alla mia prima opera, Regarde les hommes tomber. Anzi, il mio prossimo film sarà su un uomo che vuole diventare donna…».

Charlie (Joaquin Phoenix) ed Eli (John C. Reilly) in The Sisters Brothers di Jacques Audiard.

Il suo cinema e i suoi film sono apprezzati sia dalla critica che dal pubblico. Che rapporto ha verso gli spettatori?

«Io sono uno spettatore. Di film, di idee, di idee confrontate. E me ne sono reso conto tardi. Le persone hanno tanti modi per interagire, io no. Ed è per questo che ho scelto di fare cinema, rapportarmi piano piano con un gruppo di persone. La cosa vera del cinema è che ti fa entrare in comunicazione con gli altri. Un progetto personale viene metabolizzato da tante persone, facendolo sviluppare ed evolvere. Dallo scenografo al costumista, fino al pubblico. Come se partissi dal mio angolo, per arrivare a qualcosa di grande».

  • Qui potete vedere in streaming I Fratelli Sisters:
  • TOP CORN | Perché vedere I Fratelli Sisters

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