ROMA – «Quando fai un film come questo, un sequel che è molto ma molto atteso, per le persone sembra quasi la Seconda Venuta (di Cristo), ma non lo è, è solo un film, proprio come gli altri. Tutto quello che puoi fare è perdere» parole di uno Steven Spielberg da sempre molto allergico al concetto di sequel – a proposito di Indiana Jones e il Tempio Maledetto disse nel lontano 1984: «Il pericolo nel fare un sequel è che sai che non puoi soddisfare tutti, vinci e perdi in entrambe le direzioni» – che con Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo vide la sua allergia moltiplicarsi esponenzialmente. Perché nei successivi diciannove anni da Indiana Jones e l’Ultima Crociata il mito di Indy divenne leggenda. L’attesa? Incalcolabile.
Perché Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo non era un sequel qualsiasi, era «Il Sequel», di quei eventi per cui cerchi la data del calendario in rosso o compri il biglietto in anticipo di una settimana, di quei film per cui si ha il batticuore al primo trailer. Proprio per questo – e Spielberg lo sapeva bene questo – era un sequel da non sbagliare. Non andrà per il meglio, ma chi lo ha visto lo sa già. Presentato fuori concorso a Cannes 61 il 18 maggio 2008, nonostante sia ad oggi il capitolo più profittevole della saga di Indy con i suoi 743 milioni di dollari di incasso world-wide (solo Indiana Jones e l’Ultima Crociata meglio di lui con i suoi 474 milioni al botteghino), il retaggio quindicinale racconta una storia diversa.
Non un film sbagliato, ma incerto. Ciò che rese grande la trilogia originale di Indiana Jones fu la capacità di raccontare cinema ed emozionare intere generazioni grazie a realismo vivido misto a magia, buoni sentimenti, action purissimo e la gran faccia-tosta di un Harrison Ford iconico, perfetto, da leggenda. Ciò che manca in Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo è proprio il primo elemento: il realismo. E non parliamo tanto della scena di Mutt (Shia LaBeouf) nei panni di provetto Tarzan tra le liane della giungla, o del frigorifero nucleare – dichiarato omaggio al primo draft di Ritorno al futuro e all’originale macchina del tempo – nel prologo, ma della cgi posticcia, ingombrante, che si sostituisce al vivido sporco degli stunt autentici e realistici che fecero grande Indy.
Compensa la magia, qui arricchita di un certo sapore nostalgico nel rivedere il più grande eroe del cinema americano di ritorno sul grande schermo. È stato lo stesso per Spielberg che parlò così della lavorazione e del rivedere Ford nelle vesti di Indiana Jones: «È arrivato sul set, ha indossato il cappello e il suo senso dell’umorismo laconico e ha riportato in vita tutte le cose che avevamo creato assieme a George (Lucas) e Larry (Kasdan), è stato incredibile». Ma andiamo con ordine perché già all’indomani de Indiana Jones e l’Ultima Crociata si iniziò a parlare di un possibile/potenziale Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo. Precisamente dalla notte del 21 marzo 1994 quando Spielberg ricevette l’Oscar per il Miglior film per Schindler’s List (qui per il nostro Longform) dalle mani proprio di Ford.
Una settimana dopo ricevette una telefonata da Lucas riguardante proprio Ford e il suo desiderio di tornare nei panni di Indy. Quello fu il climax di un biennio intenso in cui, tra la quinta puntata della seconda stagione de Le avventure del giovane Indiana Jones (Young Indiana Jones and the Mystery of the Blues) in cui compare in un cameo barbuto – era il periodo delle riprese de Il fuggitivo – come Indiana Jones cinquantenne nel 1992 e il successo del videogioco Indiana Jones e il destino di Atlantide del 1994, tutto lasciava pensare che sarebbe stato questione di tempo, di mesi se non settimane, prima che la LucasFilm, la Amblin o la stessa Paramount Pictures annunciassero un potenziale Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo. Non accadde mai, non al tempo perlomeno.
Specie perché all’epoca l’idea di un concept riguardante alieni, dei e altre dimensioni alla maniera della fantascienza sociale da b-movie anni cinquanta, intrigava molto poco Ford: «No, nessuna possibilità che mi possiate vedere in un film di Spielberg come quelli», si riferiva a Incontri ravvicinati del terzo tipo e a E.T. – L’extra-terrestre (qui per il nostro Longform) in cui, in verità, Ford vi prese parte in un cameo sorprendente come maestro di scuola di Elliot, poi tagliato in post-produzione per il timore che la sua presenza potesse disorientare il pubblico. Lucas licenziò un primo script assieme a Jeb Stuart (lo sceneggiatore di Die Hard) in cui immaginava un intreccio riguardante Joseph Stalin, la guerra psichica e i sovietici come villain, alieni e il matrimonio di Indy: non dissimile da ciò che sarà poi Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo.
Il titolo di quel draft? Indiana Jones e gli extraterrestri da Marte, poi scartato e archiviato da una LucasFilm che anni dopo lo rilasciò in pubblico dominio (oggi è consultabile sul web). In seconda battuta ecco Jeffrey Boam che collaborò con Lucas fino al marzo 1996 su più idee e più draft. Uno di questi riguardava la mitologia biblica e le origini di Adamo ed Eva (Indiana Jones e il Giardino della Vita), ma il grosso del lavoro fu diretto verso il filone fantascientifico, quello che secondo Spielberg risultava essere il più spendibile. Poi l’imprevisto: tre mesi dopo arrivò al cinema Independence Day (qui per il nostro Longform) e Spielberg fu molto chiaro in merito: «Non girerò un altro film su invasione aliena». A quel punto per Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo era davvero troppo tardi.
Lucas entrò in pre-produzione con Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma e l’idea di un adattamento live action de Indiana Jones e il destino di Atlantide – come avrebbero auspicato i fan e immaginava la stampa – non suonava bene alle orecchie di Lucas e Spielberg: l’appuntamento con la saga di Indy e il suo tanto desiderato quarto capitolo era solo rimandato. Perché, parallelamente ai draft di Boam poco allettanti, Hal Barwood – uno dei creativi dietro a Indiana Jones e il destino di Atlantide – era al lavoro sul nuovo capitolo videoludico (Indiana Jones e la macchina infernale) di cui Lucas chiese anche uno script opportunamente modificato in chiave cinematografica. Poi il silenzio. Questo fino ai primi anni Duemila quando il desiderio di Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo divenne una necessità creativa per Spielberg.
E non solo perché i suoi figli lo assillavano continuamente su un quarto capitolo della saga, ma perché, dopo il funereo e kubrickiano A.I. Intelligenza artificiale, il distopico Minority Report e il feroce Munich, serviva una boccata d’ossigeno che solo la nostalgia di Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo avrebbe potuto dargli. Solo che andava ricalibrata meglio la componente aliena: non tanto extraterrestri ma interdimensionali, su ispirazione della teoria delle superstringhe. Poi l’intuizione di Lucas che trovò il perfetto punto di incontro tra le due visioni così da aggiungere l’ennesimo manufatto narrativo dopo l’Arca dell’Alleanza de Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta, le Pietre Sankara de Indiana Jones e Il Tempio Maledetto, oltre che il mitologico Sacro Graal de Indiana Jones e L’Ultima Crociata: i Teschi di Cristallo.
Non era ancora chiaro però se come regista e produttore o solo come produttore. Perché a un certo nel 2002 per la regia di Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo si fece il nome di quel M. Night Shyamalan cresciuto nel mito registico di Spielberg e per cui Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta (qui per il nostro Longform) era il film per l’eccellenza, quello del cuore, e di Tom Stoppard come sceneggiatore che – e i fan di Indy lo sanno bene – già nel precedente Indiana Jones e l’Ultima Crociata aveva dato un notevole contributo sotto pseudonimo. Poi l’incredibile. Shyamalan fu sopraffatto dalla sola idea di poter lavorare a un film di Indiana Jones tanto da trovare difficile mettere a fuoco Ford e il suo personaggio: non si riuscì ad andare oltre le prime fasi della pre-produzione.
Circa un anno dopo – e con la certezza che sarebbe stato Spielberg a dare forma e sostanza registica a Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo – fu ingaggiato il maestro kinghiano Frank Darabont (Le ali della libertà, Il miglio verde) come sceneggiatore. Per il 3 giugno 2003 fu licenziato un draft dal titolo provvisorio Indiana Jones e la città degli Dei che, pur approvato da Spielberg nel suo viaggio intorno al mondo tra criminali di guerra nazisti in Argentina e un Juan Peròn sorprendente, non trovò i favori di Lucas che licenziò – nel senso più comune del termine – Darabont su due piedi. Il motivo? L’esclusione dei sovietici negli anni Cinquanta della Guerra Fredda e non solo, perché Darabont avrebbe voluto introdurre il fratello cattivo (e doppiogiochista) di Indy per cui al tempo si vociferò Kevin Costner come interprete.
Lucas ritenne la gestione di quest’ultima componente come preoccupante, perché avrebbe intaccato gli equilibri mitologici della saga di Indiana Jones, ma non l’idea del mid-villain amico-nemico a cui Lucas farà cenno poi nella delineare la caratterizzazione di George “Mac” McHale (Ray Winstone) che del film è uno dei punti di forza narrativi. Parallelamente, dopo una pre-visualizzazione compiuta usando pellicole in disavanzo dal film Salvate il soldato Ryan e bozzetti creati al computer e l’ennesimo nuovo working title (Indiana Jones e le Tavole di Mosé), Lucas mise in pausa il progetto per dedicarsi interamente a Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith. A partire dall’ottobre del 2004, con lo sceneggiatore Jeff Nathanson – lui si citato nei credits – finalmente lo script semi-definitivo (Indiana Jones e le Formiche Atomiche), il vero inizio della lavorazione de Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo.
Perché è proprio dalle Formiche Atomiche di Nathanson che lo sceneggiatore David Koepp trasse ispirazione nel delineare il suo draft. Quel Indiana Jones e il Distruttore di Mondi il cui titolo colorito è diretta ispirazione della quasi omonima frase che pronunciò J. Robert Oppenheimer il 16 luglio 1945 ad Alamogordo, dopo il primo test della bomba nucleare al plutonio andato a segno: «Sono diventato la morte, il distruttore di mondi», poi modificato nel definitivo Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo in modo da richiamare attivamente al manufatto narrativo dell’epica, che superò in volata quello che avrebbe voluto Koepp però: Indiana Jones e il figlio di Indiana Jones, così da rendere esplicito al massimo quella che sarebbe stata la dinamica principe del film, il suo cuore pulsante e che in origine lo sarebbe potuto essere ancora di più.
Nello script originale era previsto infatti il ritorno del Henry Jones Sr. di Sean Connery che, sommatosi a quello ufficiale di Marion Ravenwood (Karen Allen) direttamente da Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta, avrebbe incanalato i binari narrativi del quarto capitolo verso un concetto di famiglia ancora più vasto e radicato di quello de Indiana Jones e l’Ultima Crociata. Poi il ripensamento a poche settimane dall’inizio della lavorazione, che costrinse Lucas e Koepp a una riscrittura veloce dello script, con i contorni caratteriali di Jones Sr. assunti da quell’Harold Oxley (John Hurt) bidimensionale, insipido e non opportunamente calibrato e che di Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo è indubbiamente l’anello debole, specie per l’insolita intensità del rapporto con Indiana. È importante capire però le ragioni del rifiuto, non dettato da un disinteresse a riprendere il ruolo di Jones Sr. ma per ragioni altre, più vere.
All’indomani dell’insuccesso de La leggenda degli uomini straordinari Connery disse chiaro e tondo: «Sono stufo di avere a che fare con degli idioti». Due anni dopo annunciò in un’intervista ormai celebre al The New Zealand Herald – in cui rivelò, tra le altre cose, di aver rifiutato negli anni precedenti i ruoli divenuti poi iconici di Albus Silente e Gandalf – il ritiro dalle scene che divenne poi realtà nel 2006 dopo l’AFI’s Lifetime Achievement Award consegnatogli proprio da Ford utilizzando queste parole: «John Wayne ci ha dato il West, Jimmy Stewart la nostra città, Tu, Sean, ci hai dato il mondo». Connery non stava bene, visse gli ultimi dieci-quindici anni di vita convivendo con una precoce demenza senile che rese le cose non facili, abbastanza da rifiutare un ruolo a lui caro in un film come Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo.
Ecco, il risultato finale di Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo lo conosciamo tutti: un film infelice che – e difficilmente Indiana Jones e il Quadrante del Destino cambierà le gerarchie – resterà agli occhi dei fan più rigorosi un film dimenticabile, lacunoso, evanescente, al punto da negarne perfino l’esistenza. Per quel che vale però – e quindici anni dopo se lo meriterebbe anche – proviamo a rivederlo nella sua idea originale, immaginando Sean Connery ogni volta che appare in scena John Hurt. Immaginando – e qui viene il difficile – Indiana pronunciare la parola «Papà» ogni volta che lo sentiamo pronunciare: «Oxley»: ogni gesto scenico, ogni carezza, premura, ogni corsa per salvarlo, avrà una portata emozionale completamente diversa, scommettiamo che forse, sotto-sotto, è cambiato qualcosa?
- LONGFORM | Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta
- LONGFORM | Indiana Jones e il Tempio Maledetto
- LONGFORM | Indiana Jones e L’ultima crociata
- LONGFORM | Indiana Jones e il Quadrante del Destino
Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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