ROMA – Sembra quasi che il cinema italiano, tranne quattro o cinque casi all’anno, non ambisca, ad essere qualcosa in più di un confortevole cinema di bandiera. Pochi rischi, pacchetti preconfezionati, formule e messaggi standard. E questo, tra critiche negative o incassi modesti a confermare il dato di fatto, è uno dei problemi più ingombranti che ha la nostra industria. Poi, però, arriva un (in)aspettato bagliore a riflettere il senso assoluto di cosa, un certo cinema, dovrebbe possedere. Così, quale migliore occasione se non la nascita di Roma – anzi, l’archè del mondo occidentale – per annullare i confini, aprendoli verso un’idea di espansione che va al di là di patrie e bandiere, per raccontare il pre-concetto di amore, fraterno e viscerale.
Ecco, se c’è una parola vicina a Il Primo Re di Matteo Rovere, quella è: viscere. Un film di pancia e di fegato. Perché, quando Romolo e Remo attraversarono il Tevere per fondare Roma, l’amore e la vita erano espressioni che dovevano ancora essere tramutate in qualcosa che esistesse. Così, dalla stessa parte, due fratelli, due idee, due percorsi incoscienti e istintivi. Quasi essenziali. Paura e potere, sangue e fango, la notte e il fuoco. E quel rapporto primario tra esseri viventi in cui Dio, protagonista e antagonista del film di Rovere, è il conflitto alto e definitivo. “Un Dio che può essere compreso non è un Dio”, scriveva William Somerset Maugham, frase utilizzata non a caso dal regista di Veloce come il Vento per aprire un film ambizioso che, necessariamente, deve guardare in avanti, puntando ad essere un esempio. In Italia, certo, ma anche all’estero.
Dev’essere un piccolo, grande vanto, Il Primo Re. Girato tenendo bene a mente la Cabiria di Giovanni Pastrone, ma anche Rocco e i Suoi Fratelli e Toro Scatenato. Un film artigiano e materiale, aulico e sperimentale. Del resto, mettere in discussione la centralità di Dio, in favore di una visione che cercasse una luce corporea e non una figura astratta. Messaggio oggettivamente complesso ma incredibilmente riuscito. Così come è stata complessa la produzione.
Tutto in esterno. Tutto a piedi nudi. Tutto illuminato dai colori naturali della fotografia di Daniele Ciprì. Brutale e selvaggio. E la nota, arriva dritta agli attori protagonisti: Alessandro Borghi, Remo, e Alessio Lapice, Romolo. Entrambi, nella loro esplosioni di corpi e silenzi, si sono lasciati trasportare in un’interpretazione quasi simbiotica, imparando a memoria dialoghi e monologhi in proto latino. Perché, come lo stesso Borghi ci ha raccontato, «Il Primo Re poteva essere realizzato solo con questa lingua arcaica…».
«L’idea nasce perché c’era la volontà di cercare una storia che avesse radici nel nostro passato, ma parallelamente doveva essere estremamente cinematografico. Qui c’è un utilizzo del genere complesso, senza perdere la chiave di essere un film italiano», ha detto invece Rovere, anche sceneggiatore assieme a Filippo Gravino e Francesca Manieri, che con Il Primo Re ha scavalcato anche il classico sinonimo di comunità, basata questa sull’aggregazione all’interno di uno spazio vuoto da colmare e non da svuotare. E il richiamo ad un presente fatto di esclusione e negazione, secoli e secoli dopo, va a toccare l’impeto finale quando fuoco e oscurità si incontrano in una pietas che si sacrifica in nome di qualcosa di più grande e sconosciuto. Oltre l’amore e oltre la Storia. Il Primo Re è un film che osa. E osare vuol dire vivere.
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Qui potete vedere il trailer de Il Primo Re:
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