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Il Cacciatore | Michael Cimino, Robert De Niro e il Vietnam dentro una roulette russa

Il set, John Cazale, Meryl Streep, le banane di Christopher Walken. Riscoprire un mito (di nuovo in sala)

Il cacciatore
Il cacciatore rivisto nel poster per il quarantennale.

ROMA – Nel pieno del fervore della New Hollywood, emerse la visione registico-autoriale di Michael Cimino. Fattosi conoscere nell’ambiente per il contributo dato agli script de 2002: la seconda odissea e Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan, esplose definitivamente con l’iconico-e-insolito Una calibro 20 per lo specialista di cui curò regia e sceneggiatura. Un’opera dall’inerzia unica e irripetibile che nasce come sporco heist movie, evolve in vivace commedia sul valore dell’amicizia, per poi chiudere, infine, in dramma consumato. Inizia da qui la lunga corsa che ci porterà a quel capolavoro de Il cacciatore del 1978, caratterizzatosi, tra le altre cose, per una delle lavorazioni più tortuose del cinema moderno americano. La pellicola girata prima, nel 1974, oltre a regalarci un formidabile e atipico duo Jeff Bridges & Clint Eastwood, ebbe il merito di segnalare il talento di Cimino al produttore Michael Deeley, lo stesso di Blade Runner per intenderci.

Il cacciatore fu presentato a Los Angeles l’8 dicembre 1978.

Deeley, co-fondatore della EMI Films, nel 1968 acquistò i diritti di uno script intitolato The Man Who Came to Play. Scritto da Louis A. Garfinkle e Quinn K. Rederer, raccontava di un reduce che andava a Las Vegas per giocare alla roulette russa. Qualcosa che lascerà strascichi nella sceneggiatura de Il cacciatore. Al momento dell’assunzione, infatti, Cimino partì proprio dallo script di Garfinkle e Rederer sviluppando i personaggi in modo da mantenere il nodo gordiano del racconto attorno, proprio, alla roulette russa. C’era anche un altro, enorme, problema: il Vietnam era un topic-taboo ad Hollywood, non se ne parlava né lo si raccontava e se lo si faceva o era reso in forma allegorica come nel caso di MASH oppure proprio occultandone i lineamenti (Tora! Tora! Tora!). Se lo si prendeva di petto invece il risultato era il disastro totale, vedi il caso di Berretti verdi.

Robert De Niro è Mike Vronsky in una scena de Il cacciatore
Robert De Niro è Mike Vronsky

Cimino, ben a conoscenza della criticità del tabù, lo affrontò attraverso un approccio intelligente ne Il cacciatore, lasciando il Vietnam sullo sfondo per avvolgervi la narrazione intorno ma senza prendere posizione. Il risultato? Sarà lo stesso Vietnam ad emergere con le sue conseguenze sulle vite dei personaggi e la forza delle sue immagini. Partita la pre-produzione, Cimino chiese la consulenza di Deric Washburn con cui aveva già proficuamente collaborato, ma che qui vide il rapporto incrinarsi pesantemente. Ne nacque una diatriba quasi rashomoniana sulla paternità dello script (poi riconosciuta ad entrambi) conclusasi con una sentenza dell’arbitrato della Writers Guild. Se Cimino affermò di averlo scritto interamente, tanto da definire il poco lavoro fatto da Washburn «Scritto da una mente squilibrata», quest’ultimo invece parlò di tempistiche deliranti e tossiche tanto da ritrovarsi a lavorare venti ore al giorno in un mese per poi essere licenziato di punto in bianco.

In Italia Il cacciatore fu invece distribuito il 27 febbraio 1979
In Italia il film fu invece distribuito il 27 febbraio 1979

A detta di Deeley, la seconda bozza dello script della strana coppia Cimino-Washburn (intitolata adesso The Deer Hunter/Il cacciatore) vedeva un sostanziale cambiamento rispetto a The Man Who Came to Play. Il protagonista del concept originale si chiamava Merle, un reduce solitario vittima di un infortunio e danneggiato psicologicamente, ma comunque un duro. Nel concept che poi verrà adattato in scena, Cimino e Washburn scissero le criticità di Merle in tre protagonisti differenti: Mike (Robert De Niro), Nick (Christopher Walken) e Steven (John Savage) così da arricchire il racconto di dinamiche relazionali solide e amplificare, di riflesso, gli intenti distruttivi del Vietnam. Quanto riportato sulla paternità dello script sappiate che è forse una goccia nell’oceano se rapportato alla post-produzione, oltre che alle riprese. Dalle cronache dell’epoca emerse, innanzitutto, come Cimino fosse stato astutamente manipolatorio nelle promesse fatte a Deeley e – in generale – alla Universal.

Christopher Walken è Nikanor “Nick” Chevatorevich in una scena de Il cacciatore
Christopher Walken è Nikanor “Nick” Chevatorevich

Prendiamo come esempio la sequenza d’apertura del matrimonio ortodosso. Cimino garantì che sarebbe durata giusto una ventina di minuti così da poter presentare adeguatamente i personaggi in scena: durerà in realtà quasi un’ora e secondo lo stesso Deeley, specie per il risultato ottenuto, era abbastanza chiaro che sarebbe stata immaginata così sin dalla stesura del primo draft di sceneggiatura. A questo punto, dopo neanche un terzo del film girato, Cimino aveva già sforato il budget previsto dalla Universal. Un qualsiasi imprevisto di una qualunque sequenza estesa avrebbe potuto far affondare il progetto e il portare in scena Il cacciatore. Non ce ne saranno, ma per essere un film d’autore fu comunque rischiosissimo: oltre 13 milioni di dollari di budget (ne incasserà 49) e quasi 180 km di pellicola da scremare da cui Cimino tirò fuori un primo cut da tre ore e mezza.

La macro-sequenza del matrimonio ortodosso per poco non costò la lavorazione per Cimino e Il cacciatore
La macro-sequenza del matrimonio per poco non costò la lavorazione per Cimino.

Era abbastanza però da far scucire da Deeley la parola: «Avvincente». Ai piani alti della Universal però suonava tutt’altra musica. Gli executive Lew Wasserman e Sid Sheinberg pretesero una riduzione. Sostenevano infatti che con quel minutaggio Il cacciatore sarebbe stato praticamente invendibile. A Peter Zinner, addetto al montaggio del mastodontico progetto, fu imposto di ridurre molte sequenze, tra cui quella del matrimonio. Cimino lo scoprì e lo licenziò in tronco (pur risultando nei credits il montatore ufficiale) per poi rimontarlo lui stesso: «Tagliavo quello che volevano e di notte, come Penelope, ce lo rimettevo», licenziandolo poi nel cut definitivo da 183 minuti. Eppure, attraverso una lettura ex-post, emerge come la struttura narrativa de Il cacciatore rappresenti uno specifico schema riproposto poi, a livello tematico e ritmico, in modo pedissequo nel successivo I cancelli del cielo del 1980.

John Savage è Steven Pushkov in una scena de Il cacciatore
John Savage è Steven Pushkov

Cimino infatti esordisce ne Il cacciatore come ne I cancelli del cielo con una macro-sequenza gioviale e dai toni vivaci che funge un po’ da prologo esteso funzionale nell’economia del racconto per caricare d’enfasi il cammino dell’eroe dispiegatosi. Determinando così ora i contorni caratteriali degli agenti scenici – con cui Cimino lascia sviluppare, in modo quasi immediato, un evidente legame empatico nello spettatore – ora dei brevi accenni di dinamiche relazionali sviluppate poi con la crescita degli archi di trasformazione nel dispiego dell’intreccio. L’intero secondo atto funge un po’ da rottura totale dell’equilibrio costruito sagacemente in apertura di racconto. Qui Cimino rimescola le dinamiche comportamentali, avvolge la narrazione di un marcato realismo, crudo e tangibile, lasciando infine sbocciare il sottotesto di cui lascia sempre intendere qualcosa nell’apertura di racconto: anche fosse in un gesto, una frase, un cazzotto.

L’incipit de Il cacciatore, uno dei punti più alti del cinema di Michael Cimino

Nel terzo atto sino alla meticolosa costruzione del climax infine, tutto peggiora. Da ciò che emerge da una lettura combaciata dei racconti de Il cacciatore e I cancelli del cielo è come se Cimino le legasse a doppio filo spazzando via speranze e gioiose illusioni sino a gettare le rispettive narrazioni nel sangue e nella violenza, sia essa resa in un loop esistenziale da cui è impossibile uscire, sia nel pieno di una guerra civile per la rivendicazione del Sogno Americano dei coloni stranieri, masticato dalla prevaricazione capitalista dei veri americani. In ambo le narrazioni però, Cimino va a colpire proprio il protagonista principale nel profondo del suo precario equilibrio, accanendocisi, macchiandogli le mani di sangue non suo, e a lui caro, privandolo proprio di quell’oggetto di valore che lo aveva spinto ad affrontare/ritornare nel mondo straordinario, per fargli infine fare i conti con le conseguenze delle sue azioni.

John Cazale è Stanley Stosh in una scena de Il cacciatore
John Cazale è Stanley Stosh

Ciò che emerge quindi – soprattutto dalla lettura critica de Il cacciatore – è il Cimino autore nichilista, specie nel modo in cui la codifica d’immagini conferisce valore agli archi di trasformazione dei suoi agenti scenici. In tal senso, gioca un ruolo decisivo il Vietnam che nel modo in cui viene declinato da Cimino lungo il dispiego del racconto conferisce un certo ibridismo narrativo a un Il cacciatore che più che «Film di guerra» andrebbe inteso come «Sulla guerra». Quanto compiuto da Cimino è un’accurata analisi antropologica sull’impatto avuto dalla Guerra del Vietnam sul popolo americano arricchita di senso dalla scelta di porre, come protagonisti, degli esponenti di spicco (per non dire perfino simulacri valoriali) della tipica working-class statunitense. Uomini umili ma competenti che vedono le proprie giornate dalla fessura della propria visiera in acciaio scorrere in buie e uggiose giornate blu colorate solo dal fuoco della lava incandescente.

Il ritorno a casa di Michael dal Vietnam, una delle sequenze magistrali del film

Uomini che credono nel buon lavoro, nell’amore vero che convola a nozze, nella caccia al cervo, nella birra, nella pistola tenuta in tasca per far finta d’essere Gary Cooper. Immagini che Cimino restituisce registicamente allo spettatore senza filtri, dotandole di un realismo marcato e maniacale. Momenti che vivono così di reali sbronze, gocce di vino che cadono su di abiti nunziali candidi, nudi integrali, topi veri che galleggiano, lacrime e schiaffi, twinkies e mostarda, pistole cariche per davvero (ma a salve). Un Sogno Americano – quello de Il cacciatore – di cui sentiamo perfino l’odore dell’alcool e del sangue che Cimino potenzia e cristallizza ponendo al centro della scena degli americani di seconda generazione. Poi la guerra, il Vietnam come agente disgregatore in grado di rimescolare e ribaltare quella che il Mike di De Niro teorizzava come la vita in one-shot.

L’etica della vita di Mike Vronsky: «Tu devi contare su un colpo solo. Hai soltanto un colpo»

«Tu devi contare su un colpo solo. Hai soltanto un colpo. Il cervo non ha il fucile, deve essere preso con un colpo solo. Altrimenti non è leale». Dall’etica del cacciatore di cervi Mike Vronsky, emerge uno stile di vita, un modo di affrontare il mondo senza scorciatoie. Mostrando invece rispetto, etica, fiducia, ma sempre tenendo ben saldo il fucile nelle mani. Qui entra in gioco il Vietnam che seppur mostratoci in modo fantasioso, perfino raffazzonato e poco autentico nella misura dell’iconica sequenza dell’allegorica roulette russa, ribalta l’inerzia della componente valoriale degli agenti scenici de Il cacciatore per trascinarli dall’altra parte della barricata: rendendoli da cacciatori a facili prede. Uomini traumatizzati: rotti come Mike incapace di tenere in mano un’arma, dandogli però la forza di riemergere, o sconvolti come Nick, gettato in un loop esistenziale di sensi di colpa di roulette russe di puro divertissement.

Il Mike Vronsky cacciatore di cervi

Infine Steven, menomato sino all’annichilimento del suo Sogno Americano appena sbocciato tra catatonia e terrore. Il Vietnam di Cimino produce effetti anche nella sfera caratteriale di chi non era al fronte, agendovi di riflesso, spezzando le reni di quell’apparentemente solida unità amicale costruita nel prologo fino a renderla fragile e labile sino a mostrarcele sotto una nuova lente valoriale. Effetti di cui parlò così Deeley, a quasi un anno dal rilascio in sala de Il cacciatore e poco dopo l’uscita de Apocalypse Now: «Il cacciatore non è mai stato realmente un film sul Vietnam. Parlava di qualcosa di molto diverso. Non era un film sulla droga o sul collasso della morale dei soldati. Parlava piuttosto di come ogni individuo risponde alle pressioni: uomini diversi reagiscono in modo molto diverso. Il film raccontava di tre lavoratori dell’acciaio in circostanze straordinarie».

Il cacciatore, più che un film di guerra è un film sulla guerra
Il cacciatore, più che un film di guerra è un film sulla guerra

Deeley poi proseguì soffermandosi sul senso allegorico della roulette russa: «Possono incolpare i loro leader o loro stessi. Il senso di colpa è stato un grande fardello per molti veterani. Quindi come fa un soldato a venire a patti con la sua sconfitta e tuttavia mantenere il rispetto di sé? La disumanità era il tema alla base del ritratto dei carcerieri vietnamiti che costringevano gli americani a giocare alla roulette russa, offerto da Il cacciatore. La simpatia del pubblico per i prigionieri completa così la catena. Alcuni veterani che hanno sofferto in quella guerra hanno trovato, nella roulette russa, un’allegoria valida. Apocalypse Now è surreale, Il cacciatore è una parabola. Uomini che lottano e perdono in una guerra ingiusta, affrontando scelte spiacevoli».

L’intima e delicata scena finale del film

La dieta di riso e banane di Walken per entrare nel mood stralunato di Nick, De Niro che arrivò a definire Il cacciatore come: «Il film più spossante a cui abbia mai partecipato», i suoi 5 Oscar 1979 (Miglior film, Miglior regia, Miglior attore non protagonista, Miglior montaggio, Miglior sonoro) in quella dorata notte del 9 aprile e il canto del cigno artistico di John Cazale, malato terminale di cancro ai polmoni all’ultimo stadio, al tempo sentimentalmente legato a Meryl Streep che la EMI cercò in tutti i modi di tagliare dal film (lei e De Niro coprirono di tasca loro l’assicurazione sanitaria) e che non riuscì mai a vedere finito (scomparve poco prima della fine delle riprese, a marzo). Le tante storie che girano attorno a un film entrato nella storia del cinema dal portone d’ingresso principale, eppure vittima di un grosso errore di produzione.

«Apocalypse Now è surreale, Il cacciatore è una parabola. Uomini che lottano e perdono in una guerra ingiusta, affrontando scelte spiacevoli»
«Apocalypse Now è surreale, Il cacciatore è una parabola…».

Almeno a detta di Deeley che esplicitò un sottile e impercettibile legame con lo scoppiettante Convoy – Trincea d’asfalto di Sam Peckinpah. Il motivo? È presto detto: «Il cacciatore era un film da United Artists mentre Convoy era più nello stile della Universal. Mi sono confuso e ho venduto il film sbagliato ad entrambi gli studios». Nel confronto frettoloso tra l’opera di Cimino e l’action new hollywoodiano di Peckinpah si cela in realtà un mondo fatto di linguaggio filmico ed epoche di riferimento non indifferente. Presentato a Los Angeles l’8 dicembre 1978, Il cacciatore vive e prospera in un meritato retaggio pluriquarantennale glorioso. Un’opera – autentica quintessenza del cinema hollywoodiano – capace di saper leggere, come poche altre gli effetti del Vietnam e più in generale di quell’epoca di profonde mutazioni socio-culturali: ribellione, libertà, disillusione, crisi di valori e susseguente ricodifica secondo un nuovo paradigma.

George Dzundza, Meryl Streep e Robert De Niro in una scena de Il cacciatore
George Dzundza, Meryl Streep e Robert De Niro

Nel farlo però Cimino porta in scena una narrazione marcatamente solida ma dal linguaggio filmico fuori tempo, quasi appartenente ai grandi kolossal del cinema moderno americano che poco si presta agli albori del postmodernismo e della sua matrice new-hollywoodiana (al pubblico giovanile di Star Wars per intenderci). Un corto circuito produttivo che vive di sequenze estese e montaggio compassato, d’imponenza registica e feroci ma poco realistiche allegorie. In fondo era questa la visione di Cimino – avvisaglia di ciò che Hollywood gli comunicherà dopo il folle I cancelli del cielo – un cinema magnificente, vissuto tra passato e presente, ma forse anacronistico, incapace di guardare a un futuro prossimo e imminente e per questo magico e bello-da-perdersi nella sua perenne sospensione. Da (ri)scoprire al cinema, restaurato in 4K, come imperdibile evento speciale (22-24 gennaio) con Lucky Red.

  • LONGFORM | I cancelli del cielo, il meraviglioso fallimento di Michael Cimino
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Qui sotto potete vedere il trailer del film: 

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