MILANO «Specchio, specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?». La domanda è celebre e potrebbe anche riportarvi ai vostri ricordi d’infanzia, ma dopo aver visto il documentario I sette nani di Auschwitz – in onda venerdì 28 agosto alle 21.50 su History (407 di Sky) – quella citazione assumerà un significato tutto inedito, sinistro, ma carico di una consapevolezza nuova che nasce dalla conoscenza di una storia vera, quella della famiglia Ovitz, protagonista di una incredibile favola nera, una fiaba scura ambientata in un tempo d’orrore, che parte dalla Romania e conduce fino dentro la Seconda Guerra Mondiale e negli anni del nazismo.

A raccontarci questa drammatica vicenda rimasta ai margini della storia e quasi dimenticata, è Warwick Davis. Affetto da nanismo, l’ex star de Il ritorno dello Jedi e della saga di Harry Potter (ma anche di Willow, ve lo ricordate con Val Kilmer?) non è solo la voce narrante de I sette nani di Auschwitz, ma molto di più. Perché in realtà l’attore compie un vero e proprio viaggio in prima persona per rivelare e raccontare al pubblico la tragedia vissuta dagli Ovitz. Ma andiamo con ordine: chi erano gli Ovitz? Erano sette artisti, ebrei, nani, nati all’inizio del Novecento in un piccolo paesino della Transilvania, Rozavlea, che la leggenda vorrebbe ribattezzato con il nome di un gigante che si innamorò di una nana. Ma quella è un’altra storia.

Decisi a non trasformarsi in semplici protagonisti da freak show, gli Ovitz ovvero Rozika, Franzika, Avram, Freida, Micki, Elizabeth e Perla, si garantirono una formazione teatrale per cominciare una carriera diversa. Diventarono attori, musicisti e cantanti, professionisti dello spettacolo capaci di vivere della loro arte. Insieme girarono per l’Europa e divennero popolarissimi grazie anche al successo del cartoon della Disney Biancaneve e i sette nani, uscito al cinema nel 1937 e apprezzato perfino da Adolf Hitler, al punto che il dittatore ne fece realizzare una versione nazista per la propaganda.

Quando nel 1944 la Germania invase la Romania, anche la vita degli Ovitz venne ovviamente sconvolta: prima furono vittime delle leggi razziali, poi finirono chiusi in un ghetto ed infine furono deportati ad Auschwitz. Lì la vita media dei prigionieri era di tre mesi, ma i sette rimasero invece a lungo per un motivo specifico: attirarono l’attenzione del dottor Josef Mengele, abituato a collezionare persone con deformità per poi condurre su di loro test spaventosi per capire il limite e i confini tra genetica e razza. «Lo so, dovrei odiare quell’uomo, dovrei odiare Mengele, ma ci ha lasciato vivere per fare degli esperimenti su di noi. Per questo non lo odio», rivelò Perla, scomparsa poi nel 2001, in una video-testimonianza del 1999 inserita in I sette nani di Auschwitz.

Alla fine gli Ovitz riuscirono a sopravvivere all’orrore grazie anche al loro talento musicale, dato che «i nazisti erano attirati da ciò che era fuori dal comune». A gennaio del 1945, Perla e i suoi fratelli uscirono finalmente dal campo di Auschwitz dopo otto mesi di prigionia, una sopravvivenza insperata. Prima ritornarono in Transilvania e poi si trasferirono in Israele. La loro è a tutti gli effetti una favola nera da ricordare perché, come sottolinea Davis: «questa è un’incredibile storia di sopravvivenza contro ogni probabilità». E la regina cattiva qui non si chiama Grimilde, ma Josef Mengele.
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