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Caparezza: «Exuvia, la riscoperta di Fellini e la mia ossessione per 8½»

La genesi del nuovo disco e Fellini, la curiosità e il passato: il rapper si racconta a Hot Corn

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Michele Salvemini, in arte Caparezza

ROMA – Kill Bill, Hitchcock, Blade Runner. E ancora: Fuga da New York, Scarface, La corazzata Potëmkin, Eyes Wide Shut, Miyazaki. A scorrere i testi di Exuvia, il nuovo album di Caparezza appena uscito ci si imbatte in continui riferimenti cinematografici. Ed è proprio grazie alla sceneggiatura di un film (mai realizzato), Il viaggio di G. Mastorna di Fellini che è nata la scintilla. «È un concept come lo sono anche i precedenti, ma è forse il più cinematografico di tutti perché ha una collocazione spaziale…» ci ha raccontato il rapper via Zoom, dopo un viaggio virtuale nella foresta in cui è ambientato il suo Exuvia.

Caparezza
Caparezza con la t-shirt di 8½. Foto di Albert D’Andrea

Un disco che parla di fuga, della fine di un percorso e l’inizio di una nuova fase, di ricerca di equilibrio, morte e rinascita e che ha come faro il Guido “Snaporaz” Anselmi di Marcello Mastroianni in con cui Caparezza confessa di sentire una connessione: «Mi sono immedesimato nella storia di questo regista che non riesce a terminare i suoi film perché è svogliato, tormentato dai dubbi e s’infila in questo limbo, un centro termale, dal quale non riesce ad evadere. La sua è un’angoscia continua, ma malincomica».

Hai dichiarato che la scintilla per Exuvia è nata leggendo la sceneggiatura de Il viaggio di G. Mastorna di Federico Fellini. Come ti ci sei imbattuto?

«Questa passione per Fellini e, soprattutto, per il libro che contiene la sceneggiatura del suo film mai realizzato, contiene un’appendice a un libro di Ermanno Cavazzoni sui purgatori (Rivelazioni sui purgatori, ndr). La vita ultraterrena di un musicista morto (G. Mastorna, ndr) identificata nel libro come una sorta di purgatorio. Mi sono imbattuto in questo libro perché qualche anno fa mi sono (ri)imbattuto in . Lo avevo visto da ragazzo e non l’avevo retto (ride, ndr). Dopo dieci minuti non ce la facevo più. E mi è sembrato assurdo che rivedendolo qualche anno fa – esempio di come cambiano le persone – mi sia totalmente innamorato del film. Mi ha rapito, mi si è appiccicato addosso. Tant’è vero che ho iniziato a citarlo in giro per varie canzoni».

Cosa ti affascina tanto della figura del Guido Anselmi in ?

«Mi sono immedesimato nella storia di questo regista che non riesce a terminare i film perché è svogliato, tormentato dai dubbi. Per amore di questo film mi sono avvicinato a Fellini e, per amore di Fellini, mi sono ritrovato il libro di Cavazzoni tra le mani innamorandomi di quest’opera mai finita per scaramanzia sua, dei suoi produttori e di suo un amico, Gustavo Rol, che gli aveva consigliato di non portarlo a compimento altrimenti sarebbe successo qualcosa di brutto. Perché? Perché quel film parlava di morte. Avendo letto questo libro ho sfidato la sorte e ho scritto un pezzo sulla morte e l’ho messo dentro l’album. E sono contento di averlo fatto».

Il sottotitolo dell’album è “Volevo fare un disco allegro”

«Siamo ancora su Fellini. Quando ha scritto ha poi deciso, ovviamente, di passare all’azione e di filmarlo. Durante le riprese ha attaccato un foglietto sulla macchina da presa che recitava: “Ricordati che è un film comico”. Credo che avesse paura, con le tematiche che stava tirando fuori, di immalinconirsi troppo e far venire fuori un film troppo sbilanciato sull’agonia spirituale. Così cercava di renderlo allegro. Siccome le tematiche che sto affrontando nel disco non sono una botta di vita ma neanche funeree, mi sono prefissato fin da subito di fare un disco allegro. Nonostante le tematiche mi sono sforzato di rendere tutto più cantato, con più armonie…».

Confermi che l’ottavo disco è più difficile del secondo?

«Sottoscrivo e confermo che fare questo disco è stato più difficile del secondo. È inevitabile. Se si ha a che fare con i contenuti, con le cose da dire, con album eterogenei dove ogni canzone sembra appartenere ad un genere diverso. Dopo che ne hai fatti sette, arrivare a trovare gli stimoli per farne un ottavo e risultare ancora interessante e credibile è impegnativo. Prima di tutto per me».

Caparezza in uno scatto di Albert D’Andrea

In che fase sei oggi?

«Da Prisoner 709 sto affrontando un nuovo percorso, più intimo. Mi prendo più cura di me e sto raccontando più il mio disagio. Mi sembra più interessante piuttosto che continuare a pungolare il pubblico sul costume sociale e politico come facevo prima. Anche perché è un esercizio che, da quando ci sono i social, fa chiunque. Per farlo ho quindi dovuto abbandonare la confort zone ed entrare in una sconfort zone. Quella del limbo senza scampo che ha il suo padre putativo in Fellini. Da ragazzo, non nascondo che non mi piaceva affatto. Me ne sono innamorato nell’età giusta, nell’età in cui riuscivo a comprenderlo».

Ne Campione dei Novanta fai riferimento a MikiMix, il tuo precedente alter ego, che per anni ha rinnegato…

«Era più imbarazzo. Sopratutto quando ho cambiato nome. All’epoca la scena rap nascente era molto ortodossa. E io finivo sempre per essere lo zimbello di turno. Era una sensazione spiacevole. Anche perché di mio sono molto introverso di solito e tendo a non credere alle mie capacità. All’autostima non ha fatto bene. Ci sono voluti anni per recuperare la fiducia. Però c’è anche una grande magia che accade all’essere umano: a un certo punto ti svegli e hai più di 40 anni. Questa cosa cambia tutto. Lasci l’exuvia e vai in un’altra direzione. Nel mio nuovo mondo non ho niente contro questo ragazzo di vent’anni che faceva canzoni pop rap. Provo affetto per lui. Ho una visione fraterna verso il me stesso del passato. Ora penso al presente e al futuro».

 

Nel disco ci sono dei riferimenti anche ad Alice nel Paese delle Meraviglie e a Narnia. Che rapporto hai con il fantasy?

«Da piccolo mi piaceva moltissimo. Oggi sono un fan di Leon Faun perché credo abbia portato qualcosa di nuovo nel panorama rap. In un mondo di Keep it real, lui ha portato un Keep it fantastic e ha creato una narrativa tutta sua. Mi piacciono le persone che si staccano dal comune. Quello che cito nei miei pezzi, ci tengo a dirlo, non lo cito per fare il sapientino della situazione ma perché realmente mi sono incuriosito. Non voglio essere incasellato nella schiera degli artisti colti. Non voglio spaventare le persone ma essergli amico. Chiamatemi curioso. Non faccio citazionismo spicciolo. Cerco di inserire quello che mi serve quando mi serve per uno scopo».

Caparezza
Caparezza. Foto di Albert D’Andrea

Ne La scelta citi Beethoven e Mark Hollis che hanno fatto due scelte di vita e artistiche agli antipodi. Tu hai trovato un compromesso?

«Non l’ho ancora trovato. In realtà vivo per questo compromesso. Il problema è accettarlo e per quanto tempo. Tante persone che mi seguono credono che Exuvia sia il mio ultimo album. La cosa non mi ha sorpreso e non mi ha destabilizzato. Ma sinceramente pensavo a questo disco come il secondo di una trilogia che avrebbe raccontato la prigionia, la fuga e la libertà. Il prossimo, in teoria, dovrebbe parlare della libertà ma dato che tendo a spiazzarmi facilmente, cosa che fa di me una persona coerente, è probabile che non sarà così (ride, ndr)».

Com’è uscire con un disco nel pieno di un periodo complesso come quello che stiamo vivendo?

«Il Covid come evento pandemico che ha scombussolato la vita di miliardi di persone non è entrato in questo disco. Solo un paio di canzoni sono nate durante la pandemia. Nella vita accadono cose che possono scombussolare te o il mondo circostante. E questo è uno degli elementi di Exuvia. Nel disco ci sono canzoni come Prypjat in cui racconto il cambiamento intorno a me, oltre che il mio. Con il passare degli anni cambiano i punti di riferimento e ti sembra sempre di stare scomodo, di non riuscire a trovare pace. Sono uscito ora con il disco perché era pronto. Cerco di non avere grandi strategia di marketing. Anche perché sono una pippa… (ride, ndr)».

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