LOS ANGELES – «No. Non necessariamente solo, ma certamente solitario. Oscuro e complesso». Andrew Scott riflette qualche istante e poi – durante la nostra conversazione – definisce così Tom Ripley, artista della truffa del quale veste i panni nella nuova serie di Netflix, Ripley. Scritta e diretta dal premio Oscar Steven Zaillian, la serie in otto puntate si ispira al romanzo pubblicato nel 1955 da Patricia Highsmith ed è la versione TV del film del 1999, Il talento di Mr. Ripley in cui Matt Damon interpretava lo stesso personaggio di Scott. Un ruolo, quello di Tom Ripley, che negli anni al cinema però è stato rivisto e riletto molte volte, da attori molto differenti tra loro come Alain Delon (in Delitto in pieno sole di René Clément), Dennis Hopper (ne L’amico americano di Wim Wenders), John Malkovich (in Il gioco di Ripley di Lilliana Cavani, ma appare anche qui nella serie) e anche da Barry Pepper nel praticamente inedito Il ritorno di Mr. Ripley.
La trama di Ripley? Quasi la stessa del film e del libro: nella New York degli anni 1960, il truffatore Tom Ripley (Scott, appunto) viene assunto da Herbert Greenleaf, ricco industriale, per riportare a casa il figlio Dickie (Johnny Flynn, visto in Stardust su Bowie) girovago in Italia con la fidanzata Marge (Dakota Fanning), del quale non ha più notizie. Girata tra la costiera Amalfitana, Roma, Firenze e Venezia con un cast anche molto italiano (da Margherita Buy a Maurizio Lombardi), la serie ha una differenza sostanziale con il film di Anthony Minghella: la fotografia in bianco e nero, firmata da Robert Elswit, collaboratore di Paul Thomas Anderson, già su Boogie Nights, Magnolia nonché Oscar per Il Petroliere nel 2007. «Se all’epoca Patricia Highsmith avesse pensato al libro in versione film, lo avrebbe pensato in bianco e nero. Tra l’altro quando Steven ha letto il romanzo, il libro aveva una copertina in bianco e nero. Lo ha preso come un segno», ci racconta Scott. «Inoltre il bianco e nero è in sintonia con il tono e il ritmo della serie. Ci aiuta a lasciarci ipnotizzare dal modo in cui la storia si svolge…».
IL FILM – «Ovviamente Il talento di Mr. Ripley di Minghella è un film molto amato quindi all’inizio delle riprese c’era un po’ di preoccupazione. Mi sono chiesto se Ripley fosse destinato a essere un remake e se avesse senso riprendere un’opera già di successo. Ma l’intenzione di Steve era completamente diversa. Ha sviluppato una visione particolare della storia fin da quando l’ha letta molti anni fa. E credo che l’opportunità di scriverla e di raccontarla in una forma televisiva lunga sia stato interessante per lui perché voleva che il pubblico si approcciasse alla serie come quando si legge un romanzo. Non leggiamo un romanzo in due ore. Lo leggiamo in un certo lasso di tempo. All’interno della storia, a volte possiamo concentrarci su un aspetto particolare della vicenda, a volte si tratta della trama, a volte dei personaggi. Questo permette di trascorrere del tempo con i personaggi e di vederli pensare e fare errori. Inoltre aveva una visione anche specifica sulla fotografia».
L’ITALIA – «È stato affascinante. Ho dovuto recitare molto in italiano. E volevo farlo bene perché penso che Tom sarebbe stato bravo visto che è uno che studia in fretta, come dice Dickie Greenleaf, il personaggio interpretato da Johnny Flynn. Immagino sia stato piuttosto difficile per gli attori italiani venire per un giorno e recitare in una lingua diversa e creare un’atmosfera. Per me è normale perché vengo dal teatro come Johnny e in teatro la persona che ha una battuta sta con te tutto il tempo. È presente a ogni prova. Si va a bere qualcosa dopo, sia che si abbia una battuta o 1500 battute. Nei set cinematografici e televisivi la persona che arriva, che ha una sola battuta, è lì forse per una mattina, e quindi non si riesce mai a legare o a sentirsi parte della grande macchina. Quindi, cercare di far sentire queste persone ben accolte e ascoltare le loro preoccupazioni o domande è importante per me. Abbiamo avuto un gruppo di lavoro davvero molto variopinto».
IO E CARAVAGGIO – «Tom nella serie ha un legame profondo con Caravaggio, un colpo di genio di Steve. Caravaggio è un artista che adoro. Mia madre era un’insegnante d’arte e fin da bambino mi ha parlato di Caravaggio e del suo uso della luce. Mi piace il collegamento tra la sua fascinazione per quest’uomo oscuro, criminale, genio. Penso che sia dovuto al fatto che le sue opere d’arte siano senza tempo, in un certo senso, c’è qualcosa di quel genio che continua ad affascinare. Come il modo in cui il personaggio di Ripley continua ad affascinare la gente, che il pubblico ama guardare anche perché non ha necessariamente bisogno di vedere la sua bontà. C’è questa nuova parola di cui tutti si preoccupano in questi giorni: accessibilità. Non credo che l’accessibilità serva al pubblico. Non c’è bisogno di immedesimarsi in tutti i personaggi perché in realtà a volte ciò che ci relaziona a un personaggio è la sua diversità. Il nostro lavoro di artisti, e credo che Caravaggio lo avesse capito, è quello di rappresentare ciò che c’è, non quello che vorremmo ci fosse. Dunque, la rappresentazione dell’oscurità, per me, è molto importante perché significa che possiamo capire la nostra luminosità e la nostra bontà grazie al contrasto con essa».
IL PERSONAGGIO – «La ragione per cui il personaggio di Ripley è così duraturo e così iconico? Credo sia perché abbiamo ancora tante domande su di lui, quindi rispondere a troppe domande in modo troppo specifico riduce il personaggio. Il motivo per cui troviamo le persone affascinanti, spaventose, terrificanti o scomode è perché non abbiamo troppe informazioni su di loro. Quindi ho sempre l’impressione che le informazioni che Tom fornisce su di sé non siano affidabili. Quello che lo spettatore deve fare è farsi un’idea di lui senza considerare la sua nazionalità e nemmeno la sua età o la sua sessualità. Ed è interessante perché invece la gente vuole delle risposte. Qual è la sua sessualità? Da dove viene? È vera questa cosa? E devo dire che anche questo mi piace, perché, per certi versi, queste domande sono piuttosto ingenue perché il punto è proprio questo: non lo sapremo mai. Essere portati a fare delle domande credo sia il segno di una buona arte…».
LE ISPIRAZIONI – «Spesso quando si interpretano personaggi famosi, anche personaggi letterari, ad esempio quelli scritti da Shakespeare, ci si preoccupa della notorietà del personaggio o di quale parola lo definisca: è psicopatico? O sociopatico? Un serial killer? Nessuna di queste cose è di alcun interesse per me. Non credo Tom sia un assassino. Penso sia una persona che commette degli errori e quegli errori glieli vediamo commettere in tempo reale. La cosa bella delle storie, e di questa versione della sceneggiatura di Ripley, è che noi facciamo il tifo per qualcuno per cui non dovremmo necessariamente fare il tifo. Vogliamo che Tom la faccia franca e questo accade perché vediamo noi stessi in Tom Ripley. Ho amato la sceneggiatura dal primo istante in cui l’ho letta, ne sono rimasto affascinato, come se stessi leggendo un romanzo. Mi è sembrata completa, compassionevole e rispettosa di quella che poteva essere l’intenzione originale di Patricia Highsmith, senza essere eccessivamente irriverente, ed era anche molto visuale, con un’idea centrale decisamente forte».
LA SFIDA – «No, non è stato semplice girare Ripley. La difficoltà maggiore è stato l’impegno fisico, perché c’era un’enorme quantità d’azione. Ma anche il fatto di essere nel 95% delle scene di una serie di otto ore. Sei lì tutto il tempo a recitare, ogni giorno, per un anno. Spesso, nelle serie si parla di una famiglia o di un ospedale o di una coppia. Può accadere nei film, che ci sia un personaggio per tutto il tempo, ma in una serie credo sia insolito che ci sia una persona sola per la maggior parte del tempo. E mi sono rifugiato nel fatto che Johnny (Flynn, nda) e Dakota (Fanning, nda) erano lì e mi mancavano quando non c’erano. Essere lontano da casa e dalla mia lingua è stato come andare in un luogo oscuro. Un privilegio, ma anche una sfida. Se ho capito chi è Tom? Di certo è un antieroe, ma vorrei che il pubblico capisca cosa significa essere Tom, perché tutti noi abbiamo delle oscurità dentro e siamo un mistero per noi stessi. Non siamo tutti assassini, ovvio, ma credo che ci siano domande che ci poniamo e che rimangono un mistero. Per sempre…».
- VIDEO | Andrew Scott e il viaggio di Estranei
- VIDEO | Qui il trailer di Ripley:
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