MILANO – «Lei è o è mai stato membro del Partito comunista?». Una domanda secca che non lascia nessun margine d’improvvisazione o sfumatura. Se lo sono sentito chiedere alcuni dei nomi più illustri della vecchia Hollywood, da Humphrey Bogart a Katharine Hepburn, davanti alla commissione per le attività anti-americane. Da una parte gli accusati, dall’altra gli accusatori. Era il 29 giugno 1946 quando l’editore e fondatore del The Hollywood Reporter, William R. Wilkerson, firmò una rubrica dal titolo Un voto per Joe Stalin in cui fece i nomi di un gruppo di sceneggiatori. L’accusa? Quella di essere simpatizzanti comunisti. Tra quei nomi c’era anche quello dello sceneggiatore più richiesto e pagato dagli Studios: Dalton Trumbo.

Fu proprio quella lista che diede il via, l’anno successivo, alla serie di udienze che videro protagonisti presunti filo-comunisti accusati di fare propaganda tramite il loro lavoro e citati in giudizio con l’obiettivo per epurare il settore. Trumbo fu uno di loro. Inserito nella Hollywood Ten, gruppo di professionisti del cinema che si rifiutò di testimoniare, nel 1950 lo sceneggiatore fu ugualmente condannato a undici mesi di prigione. La sua storia è stata raccontata nel 2015 ne L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, film diretto da Jay Roach che presto rivedremo in sala con Bombshell – La voce dello scandalo, alle prese con un altro fatto realmente accaduto.

Il film, basato sulla biografia/intervista Trumbo del giornalista Bruce Alexander Cook, racconta la sua vita e la sua lotta contro ingerenze e ingiustizie. Dagli inizi come lettore per la Warner Bros. alla veloce promozione come sceneggiatore fino all’arresto e all’esilio in Messico. A prestargli il volto sul grande schermo Bryan Cranston che per la sua interpretazione ha ricevuto una nomination agli Oscar. E di statuette d’oro Dalton Trumbo ne sapeva qualcosa. Occhiali dalla montatura spessa, sigaretta con il bocchino e macchina da scrivere. Non gli serviva altro per scrivere sceneggiature entrate a far parte della Storia del cinema.

Perché neanche l’ostracismo del Maccartismo e l’onda della paura rossa che investì l’America post Seconda Guerra Mondiale gli impedirono di scrivere. Quel ragazzo del Colorado arrivato a Los Angeles con qualche soldo in tasca e molti sogni da realizzare continuò a firmare sceneggiature sotto pseudonimo. Qualche esempio? Suo è il soggetto per Vacanze Romane di William Wyler che vinse l’Oscar nel 1954. A ritirarlo non salì lui sul palco del RKO Pantages Theatre – sede della 26ª edizione degli Academy Awards – ma il collega Ian McLellan Hunter. Stessa sorte per l’Oscar vinto nel 1956 con lo script de La più grande corrida di Irving Rapper firmata con lo pseudonimo di Robert Rich.

Dieci anni dopo il suo inserimento nella Lista nera di Hollywood, ci pensò il film «su un uomo che combatte da solo contro il mondo intero» a reintegrarlo ufficialmente a Hollywood e a stracciare idealmente le liste maccartiste. Quel film, su cui tornava a firmare la sceneggiatura con il suo vero nome, era Spartacus. A dirigere il kolossal Stanley Kunrick e ad interpretare quel gladiatore schiavo che lotta per la libertà Kirk Douglas che tanto aveva voluto Trumbo e che s’impegnò in prima persona per vedere il suo nome comparire sulla locandina del film. Perchè «gli unici che rispondono ad una domanda con un sì o un no sono solamente gli stupidi o gli schiavi».
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