ROMA – «È okay non stare bene». Spesso sulla questione mentiamo consapevolmente, poiché certi di non poter mostrare e vivere davvero il nostro dolore. Figli di una società che raramente intende rallentare, o addirittura arrestarsi di fronte ai reali problemi degli individui, guardandoli in volto e interrogandoli per ciò che sono. Preferendo scansarli, un po’ per imbarazzo e un po’ per incapacità, che è in primo luogo emotiva e poi pratica. «Se sei malato, cosa farai? Come gestirai il lavoro, oppure l’amore». Così come si gestisce la vita, continuando ad abbracciarla, questa volta però, stringendola più forte. Eppure com’è possibile che la nostra scala di priorità, necessiti della consapevolezza definitivamente brutale, eppure limpida d’aver un tempo più limitato, per distinguere una volta per tutte, ciò che andrebbe inseguito davvero, da ciò che invece dovremmo scordare?

Si pongono la stessa domanda Almut (Florence Pugh, in quella che è senza dubbio, la prova più fisica di carriera) e Tobias (Andrew Garfield, l’uomo che scrive osservando il dolore, ma preferendogli l’amore). Ed è proprio nel momento della diagnosi, quello dunque più doloroso di We Live in Time, il settimo lungometraggio da regista di John Crowley, che la risposta dell’oncologa, muta realmente ogni logica. Poche parole: «È okay non stare bene». Qui comincia il film. Ed è attraverso la riflessione sul tempo e le sue prove, che Crowley ci racconta l’amore, ancor più della malattia. Una fastidiosa compagna di viaggio, che non sarà mai in grado di spezzare un legame, nemmeno quando giunta a termine. Lì dove ha inizio un tempo differente, che è del ricordo e poi di inevitabile e necessaria ricostruzione.

Non è la prima volta che John Crowley si misura con un racconto sulla frammentazione del tempo e degli accadimenti di vita, mai realmente lineari e sparpagliati in disordine, protagonisti di un puzzle apparentemente intricato, eppure perfettamente leggibile, fatto di scosse emotive, scelte dolorose, nuovi e vecchi amori, rabbia e cambiamenti profondi. È successo in occasione del travagliato adattamento cinematografico del romanzo premio Pulitzer, Il Cardellino di Donna Tartt. We Live in Time però si spinge ancora oltre, osservando – ma solo occasionalmente –, quanto fatto da Richard Curtis nel 2013 con il meraviglioso Questione di tempo, spezzettando giorni comuni e giorni invece decisivi di una grande storia d’amore, nell’arco di dieci anni. Dalla casualità dolorosa eppure esilarante e magica del primo incontro – un’incidente d’auto notturno -, alla decisione di dar vita ad una famiglia, superando la paura di avere figli e di non essere all’altezza mai né del proprio ruolo genitoriale, né tantomeno del proprio ruolo sociale. Fino alla scoperta della malattia e di un tempo limitato, che Almut afferma: «Dovrà essere vissuto appieno».

È proprio quello che accade. Infatti, scansando le insidie e le trappole vere e proprie del filone cinematografico amore e malattia, John Crowley e il suo sceneggiatore Nick Payne, noto drammaturgo britannico, riescono nell’impresa estremamente complessa e inaspettata, di rendere We Live in Time ciò che difficilmente avrebbe potuto essere, o apparire. Una rom-com dolce, sgangherata, realista e perfino scorretta, che nella risata, quella vera, buffa e a tratti perfino sguaiata, rintraccia la miglior direzione possibile, per raccontare e mostrare il grande dolore, quella della sincerità. Dunque la capacità di continuare a sorridere, prendendosi gioco perfino della morte, che vorrebbe incidere la parola fine sulla memoria e i cuori di Almut e Tobias, senza però riuscirci. Poiché di parole, così come di ricordi, insegnamenti culinari e ancora di pattinaggio, ne restano molti. Dov’è dunque finita o scomparsa quella vita, se non ancora tra noi, nei nostri gesti, nelle nostre parole, nell’abilità di amare e poi di rompere le uova?

Il cinema di John Crowley dimostra d’essere ancora una volta, estremamente elegante, colto e pacato. Nient’affatto interessato alla pornografia del dolore, piuttosto all’osservazione del tempo e dei cambiamenti che quest’ultimo genera sugli individui, che si parli semplicemente d’amore, oppure di malattia, o di entrambi nel caso di We Live in Time. Florence Pugh e Andrew Garfield sono due interpreti di classe e la commozione grazie a loro, può giungere perfino al termine di una risata. Cosa rara nel cinema d’oggi e da ricordare.
- OPINIONI | Past Lives, la recensione
- HOT CORN TV | We Live in Time, il trailer italiano:
Lascia un Commento