ROMA – Gli orfani Seita e Setsuko lottano per la sopravvivenza nel Giappone ferito dalle scorie belliche della Guerra del Pacifico. Ma la società è dura e giungono alla triste conclusione che non possono né sfuggire alle difficoltà della guerra né trovare abbastanza cibo per sopravvivere. Nominato miglior film d’animazione al Chicago International Children’s Film Festival del 1994, Una tomba per le lucciole, il capolavoro anime di Isao Takahata del 1988 – nonché il suo primo prodotto con lo Studio Ghibli – è ora disponibile in esclusiva su Netflix. Un anime su cui c’è tanto da dire e raccontare, a partire dal titolo per cui è necessaria una precisazione. Sebbene sia da considerarsi una tradizione accurata e letterale dal giapponese Hotaru no Haka (Hotaru/Lucciole; Haka/Tomba) non è un titolo in grado di trasmettere appieno i significati impliciti per un lettore madrelingua.
Il termine Hotaru, in questo caso, non è scritto usando i normali caratteri kanji, così da creare l’equivalente fonico dei caratteri per Fuoco e Cadere. Il titolo parlato di Hotaru no Haka – Una tomba per le lucciole – trova in sé nuovi significati nelle immagini usate nel film così da permettere al pubblico occidentale di concettualizzare meglio la storia da una prospettiva giapponese. Non tanto quella di Takahata, però, ma dell’autore dell’opera originaria. Il romanzo breve di Akiyuki Nosaka del 1967 ispirato a fatti realmente accaduti durante e dopo il bombardamento incendiario di Kobe del 1945. Proprio come Seita, anche Nosaka perse la propria sorellina – Keiko il suo nome – durante la guerra per malnutrizione, incolpandosi della sua morte.
Scrisse così l’omonima opera letteraria in modo da venire a patti con la perdita, scusarsi con lei nella forma più elevata possibile – dedicandole un’opera – e così provare ad elaborare un dolore altrimenti impossibile da gestire. Manco a dirlo, Nosaka ricevette molte proposte nei decenni successivi per adattare sul grande schermo Una tomba per le lucciole, tutte respinte al mittente però e per una ragione ben precisa: «Era impossibile creare la terra arida e bruciata sullo sfondo della storia». La differenza la fece la proposta di Takahata e con lui quella di una versione animata i cui storyboard riuscirono a colpire nel segno per la precisione con cui furono ritratte le risaie e il paesaggio bellico urbano. Ma non era di certo per questa ragione che Takahata si era avvicinato a Nosaka e alla sua opera letteraria.
C’era qualcosa nell’idea di raccontare del Giappone bellico attraverso gli occhi di un personaggio come Seita: «Era uno studente di terza media unico in tempo di guerra e anche i passaggi più oggettivi sono qui filtrati attraverso i suoi sentimenti». Occhi che ci guardano, dritti in faccia e non per caso. Sono ben due le circostanze in cui l’agente scenico rompe silenziosamente la quarta parete guardandoci negli occhi: all’inizio e alla fine di Una tomba per le lucciole, perché è a noi spettatori che Seita – e con lui Takahata – sta parlando. Ci sta raccontando la sua storia e con lui quella di milioni di giapponesi. Una storia di dolore e desideri, di speranza e indifferenza, che mette al centro l’uomo e la sua dignità privata prima come individuo e poi come essere sociale.
Perché è della guerra che racconta Takahata con Una tomba per le lucciole e le sue immagini animate pure e senza filtri. Della guerra – ogni guerra, di ieri come di oggi – come agente di caos disgregante. Il grande livellatore universale che ribalta la percezione di ognuno ricordandoci, ancora una volta, la differenza tra giusto e sbagliato, bene e male, ma soprattutto delle conseguenze sulla carne viva degli uomini: «Il film non è esattamente un anime anti-bellico e non contiene alcun messaggio del genere in verità. Volevo raccontare di un fratello e di una sorella che vivono una vita fallita a causa dell’isolamento dalla società e dai propri cari». Non a caso, nonostante il tono marcatamente drammatico, ma ci sono anche tanti momenti in alleggerimento nell’anime, esattamente come accade a tutti nella vita di ogni giorno.
L’anime di Takahata, tuttavia, ha visto il proprio destino distributivo legato per sempre a quello di un’altra premiata produzione dello Studio Ghibli: Il mio vicino Totoro di Hayao Miyazaki. Entrambi furono distribuiti, infatti, il 16 aprile 1988 e molto spesso proiettati in double-bill per una ragione ben precisa. Lo Studio Ghibli riteneva Totoro un progetto molto rischioso. Gli executives, con Toshio Suzuki in testa, proposero così una doppia distribuzione con Una tomba per le lucciole in modo che facesse da traino e potesse sostenerlo finanziariamente. Nonostante gli elevati intenti artistici dell’opera di Takahata, fu tuttavia il rischioso Totoro con la sua dolcezza familiare a prendersi la scena imponendosi come il primo vero grandissimo successo artistico dello Studio Ghibli.
Trentasei anni dopo però, se è vero che Il mio vicino Totoro ha dimostrato d’essere tutto meno che un progetto filmico debole e rischioso, è la storia a dirci che di opere come Una tomba per le lucciole ne nascono una ogni generazione di cineasti. Proprio per questo, quello di Takahata è un anime da vedere, da scoprire, riscoprire e amare perdutamente nelle sue immagini di dolore perché testimonianza di un tempo solo apparentemente distante, lontano e remoto. Un tempo sospeso, eterno e che ritorna continuamente a noi sotto nuove forme, l’importante è saperlo riconoscere.
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