ROMA – Opera dell’apprezzato regista Alexander Payne, The Holdovers – Lezioni di vita segue le vicende di Paul Hunham, un burbero professore di storia antica (Paul Giamatti) della prestigiosa Barton Academy, costretto a rimanere nel campus durante la pausa natalizia per seguire un gruppo di studenti che non ha un luogo dove passare le feste. Inaspettatamente, crea un legame speciale con uno di loro – Angus Tully, un cervellotico combinaguai (l’esordiente Dominic Sessa) – e con la responsabile della cucina della scuola, Mary Lamb, che ha appena perso il figlio ventenne Curtis in Vietnam (Da’Vine Joy Randolph). Arrivato al cinema lo scorso 18 gennaio con Universal Pictures, non ci è voluto molto prima che il dolce film di Payne trovasse un posto nel cuore dei cinefili.

Lo stesso può dirsi per l’autore dello script. Quel David Hemingson che per darvi forma e colore ha attinto ad alcuni episodi della propria vita e al rapporto con il suo vero zio paterno. Per sua stessa ammissione: «Molte delle cose in The Holdovers sono solo una lettera d’amore a mia madre, mio zio e mio padre. La scena della prostituta è davvero accaduta sulla First Avenue e sulla 30th Street con lui quando avevo sette anni. Questa donna si avvicinò in una giornata incredibilmente fredda e si fece avanti dicendo: Il ragazzo può aspettare dietro l’angolo. Quella del giubileo delle ciliegie, invece, è qualcosa che mi è successo con mia madre». Script che in origine fu da lui concepito come base di un progetto seriale ambientato ai giorni nostri.

Il titolo? Stonehaven, capitato per caso tra le mani di Payne che se ne innamorò istantaneamente, ma a una condizione: «David ha un innegabile senso della struttura e del dialogo. Lo chiamai e dovetti subito dovuto chiarire che non avevo intenzione di lavorare su Stonehaven, ma volevo sapere se avrebbe preso in considerazione l’ipotesi di scrivere uno script di un lungometraggio basato su un’idea simile ma diversa. Sono sempre molto focalizzato su quelle che mi auguro possano essere considerate storie dal forte elemento umano, piuttosto che episodi, convenzioni o artifici. Mi piace avere un protagonista le cui vicende siano più simili alla vita reale che a quella immaginata sui film. Peraltro, al college ho studiato storia e ancora oggi leggo molta saggistica».

Da qui la scelta dello switch temporale. Payne, infatti, suggerì a Hemingson di ambientare The Holdovers nel passato: tra il 1958 e il 1970 per la precisione. Scelta infine ricaduta su quest’ultimo anno in modo da evitare anche facili (e inevitabili aggiungiamo noi) accostamenti con il 1959 de L’attimo fuggente. Ma anche (molto) funzionale in termini di colore scenico, perché Payne – che definisce i period drama come: «La cosa più vicina al viaggiare nel tempo: The Holdovers è stata un’esperienza adorabile» -, se n’è servito ricreandone l’atmosfera ora negli omaggi cinefili (Piccolo Grande Uomo), ora in termini di ritmo nel suo andamento armonico condito da morbide transizioni di dissolvenze incrociate tipiche di un cinema ormai svanito, ora – soprattutto – in quelli di costruzione d’immagine sin dai (bellissimi) titoli di testa vintage.

Un’atmosfera settata partendo da ispirazioni eccellenti, come raccontato dallo stesso Payne: «Al Somerville Theatre di Boston sono stati così gentili da lasciarmi proiettare sei o sette copie di film di quel tempo per il direttore della fotografia, lo scenografo, il costumista e anche per Dominic Sessa perché non aveva visto davvero quei film e volevo che si facesse un’idea del film in cui stava per recitare. Ho proiettato Il laureato, Il padrone di casa, Harold e Maude, L’ultima corvè, Una squillo per l’ispettore Klute, Paper Moon, Tutti gli uomini del presidente. Non stavamo cercando di emulare consapevolmente l’aspetto e l’atmosfera di uno qualsiasi di quei film, ma tutti noi avremmo voluto immergerci nei film dei nostri contemporanei, se avessimo girato un film in quel periodo».

Qualcosa, quindi, che va molto oltre quello che qualcuno potrebbe pensare essere un semplice vezzo artistico. Perché c’è una specifica ratio filmica dietro alle quadrate, ispirate ed evocative immagini intessute da Payne con cui dare forma a The Holdovers per come lo abbiamo imparato a conoscere (e ad amare). A detta del DoP Eigil Bryld: «È un film su persone che sono costrette a stare insieme nell’inquadratura e non vogliono necessariamente essere nella stessa inquadratura. A poco a poco, nel tempo, si uniscono sempre di più e questo era un arco che stavamo cercando: come avremmo riflesso tutto questo, come lo avremmo inquadrato e dove avremmo posizionato la telecamera…». Più precisamente, un film di persone e di solitudini forzate dalla vita e condivise dal caso opportunamente calcolato dallo script di Hemingson, che ne intreccia i destini.

A partire da quella dell’Angus di un Sessa straordinario, intenso e già veterano (nonostante The Holdovers sia il suo film d’esordio) con alle spalle un passato familiare problematico che si riflette in un presente difficile – e un futuro incerto – che alterna empatia a sbruffonaggine seppur dotato di intuito, parlantina, charme e di talento nell’apprendere. Una solitudine che lo fa vivere ma non convivere con i suoi compagni di college costringendolo ad alzare muri per necessità. Questa si intreccia con quella del Paul di un Giamatti allo stato dell’arte nel ruolo che gli varrà l’immortalità artistica (era da Oscar, ha vinto comunque il Golden Globe nda). Tenero, spigoloso, paterno, commuovente. Un perfetto Atticus Finch (ve lo ricordate com’era Gregory Peck in Il buio oltre la siepe?) postmoderno.

È un uomo imperfetto, Paul, fiero ma pieno di fragilità, costretto a ridimensionarsi dalle delusioni della vita – «Nemmeno un sogno riesce a sognarlo fino in fondo eh?» gli viene fatto notare in uno dei tanti corposi e rivelatori scambi dialogici di cui The Holdovers è percorso – perché Paul sogna di scrivere monografie e non libri perché non si sente all’altezza. Sogna di viaggiare in Europa ma non è mai uscito dal suo campus e oltre i confini di Boston (e se va in città è solo per sbrigare commissioni) perché non ne vale la pena. Sogna, soprattutto, l’amore di Lydia (Carrie Preston) ma non si espone mai perché sa che dopo, forse, sarebbe impossibile tornare indietro. Sta sempre un passo indietro Paul, in ogni evento della vita. Sa che potrebbe fare la differenza, ma sceglie di non farlo.

Tranne che con Angus. Ed è proprio nello sviluppo della loro dinamica relazionale che cresce il cuore emotivo e umano di The Holdovers in un incontro salvifico mediato, bilanciato e infine fortificato dalla Mary di una Randolph eccezionale – fragile ed energica all’occorrenza, depositaria dell’anima tragica del racconto (non a caso vincitrice dell’Oscar 2024 alla Miglior attrice non protagonista) – che vede entrambi gli uomini guardare oltre la maschera del ruolo sociale di studente e insegnante che le circostanze ha dato loro, per scoprirsi alleati, amici, lontani a livello anagrafico ma vicini nell’intimo di una tenerezza esistenziale che entra sottopelle e scuote l’animo alla visione. È un film di insegnamenti vitali quello di Payne. Scomoda Democrito per ricordarci come «Il mondo è mutamento, la vita è percezione» rivelandoci una verità taciuta: sono le avversità a formare il carattere.

Ci insegna, The Holdovers, la natura ciclica della storia e degli uomini: «Se vuoi veramente comprendere il presente o te stesso, devi iniziare dal passato. La storia non è semplicemente lo studio del passato, è una spiegazione del presente» e come, per il rovescio della medaglia, non c’è niente di veramente nuovo in ogni esperienza che compiamo perché già vissuta, già affrontata e sperimentata da altre – intere – schiere di uomini prima di noi: «Ogni generazione pensa di aver inventato la dissolutezza, la sofferenza o la ribellione, ma ogni impulso e appetito dell’uomo, dal disgustoso al sublime, è in mostra, è tutto intorno», scritto nei libri di storia. Ciò non significa, però, che ogni gesto che compiamo sia meno speciale di uno già vissuto. Ogni abbraccio che unisce, ogni primo e ultimo bacio, ogni carezza e arrabbiatura, sono tutti gesti unici.

«Tutto ciò che avviene (nella vita), avviene giustamente» per citare il Marco Aurelio di quel Le Meditazioni di cui Paul ha uno scatolone intero di copie da regalare a ogni persona che incontra nel suo cammino. Quasi come fosse un gesto d’amore gratuito. Un voler dare a chiunque abbia la fortuna di incontrarlo un manuale di istruzioni su come affrontare la vita. E così fa The Holdovers con i suoi spettatori. Sino a quel climax, perfetto, di cui Payne calcola il crescendo emozionale passo dopo passo, scena dopo scena, inquadratura dopo inquadratura, ora rivelando la natura dell’assenza incolmabile di Angus in una sequenza toccante al sapore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, ora dando a Paul l’occasione di fare la differenza mostrandosi umano e protettivo verso il suo giovane amico.

E poi c’è quell’ultima frase. Quell’ultima linea dialogica fatta di parole che ognuno di noi, a un certo punto della vita, vorrebbe sentirsi dire nei momenti più difficili e che di tutto The Holdovers (lo trovate in streaming su NOWtv, Prime Video ed Apple TV+) sembra quasi il manifesto d’intenti e l’essenza filmica stessa: «Non si pieghi mai, intesi? Lei ce la può fare…». Ecco, più che sulla solitudine, quello di Payne è un magnifico film sulla famiglia e il sapersi aprire al mondo, sull’importanza ontologica della storia e sulla magia del Natale e la sua forza trasformativa, e su come si possa trovare amore, affetto e comprensione anche nei momenti più improbabili. Un film bellissimo, insomma, una perfetta visione di Natale, ma forse c’è qualcos’altro…
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