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Stanley Tucci: «Il mio Giacometti? Un artista bambino senza tempo»

Parigi, un’amicizia improbabile e quel dipinto incompiuto: il regista racconta Final Portrait

ROMA – Come Penelope, in attesa del ritorno di Ulisse, tesseva e disfaceva la tela, anche il pittore e scultore Alberto Giacometti ha tratteggiato e modellato la sua arte per poi distruggerla e ripartire da zero. Un processo artistico infinito dove l’incompiutezza si trasforma in tratto distintivo. Lo racconta Stanley Tucci alla sua quinta regia in Final Portrait, resoconto dell’amicizia tra l’artista italo-svizzero interpretato da Geoffrey Rush e lo scrittore americano James Lord (Armie Hammer) attraverso la realizzazione di un ritratto mai portato a termine. Ambientato nella Parigi del 1964, Final Portrait declina le forma classica del biopic per tentare di catturare il sentire artistico del pittore come ha raccontato Tucci a Hot Corn alla conferenza stampa del film.

Alberto Giacometti (Geoffrey Rush) e James Lord (Armie Hammer) in Final Portrait.

LA FORMA «Non credo nei biopic. Troppo spesso risultano una serie infinita di fatti, un’esposizione lineare e cronologica di eventi della vita di una persona condensati in due ore. Ritengo più interessante concentrare l’attenzione su un episodio, o un periodo ristretto, ed immergersi fino in fondo per scoprire l’essenza stessa della persona. E dare quindi un valore universale al racconto».

L’ISPIRAZIONE «Un ritratto di Giacometti, il memoir di James Lord al quale mi sono ispirato, esprime al meglio il processo artistico con tutte le difficoltà, gioie e dolori. Credo che la nevrosi, l’ansia, il senso di frustrazione, l’insoddisfazione in quello che è un movimento costante, non tanto verso la perfezione quanto verso la creazione di qualcosa di veritiero, sia lo scopo di ogni artista. Quindi anche il mio. È stata una progressione naturale avere voglia di trasformarlo in un film».

Stanley Tucci all’opera sul set del film.

L’ARTISTA «Giacometti ha dedicato anima e cuore alla pratica artistica. La sua etica del lavoro era più grande della sua etica morale. Il suo desiderio, per poter creare, era vivere come un bambino e, come tale, faceva scelte egoiste. Mi affascina il suo processo artistico, come si relaziona con il frutto della sua arte, gli accenni di sadismo e masochismo connaturati nei rapporti di ogni artista. Ha creato opere senza tempo. Le sue sculture possono sembrare realizzate migliaia di anni fa o contemporanee. Questo è ciò che gli ha permesso di esprimere meglio di chiunque la condizione umana».

IL PROTAGONISTA «Geoffrey Rush si è immerso in un lavoro di ricerca enorme nei due anni che ho impiegato per trovare i finanziamenti per il film. Prima di girare abbiamo provato per ore, come se si trattasse di una pièce, perché per me era importante che ci fosse coincidenza tra la fisicità dell’esercizio artistico di Giacometti e la dimensione interiore. Quando Geoffrey è entrato in confidenza con questi due aspetti è stato straordinario. Non fermavo mai la macchina da presa e continuavo a filmarlo per tenere accesa la sua naturalezza…»

Ancora Hammer e Rush sul set di Final Portrait.

LA REGIA «La scelta di utilizzare due camere a spalla nasce dal fatto che gran parte del film ritrae i protagonisti in posizione statica. Era necessario dare movimento ad un’immagine che diversamente sarebbe risultata pesante. Il direttore fotografia, Danny Cohen, ha organizzato ogni giorno di lavoro stabilendo a priori l’illuminazione a seconda dell’ora del giorno. Questo ha permesso alle macchine di muoversi con più velocità ed agio possibili e le riprese ne hanno guadagnato in spontaneità»

LE SCELTE «Cosa mi spinge a dirigere un film? Il desiderio di raccontare una storia nel modo in cui voglio io. Come attore ho recitato sia in film indipendenti sia in blockbuster perché diversamente non avrei avuto i soldi per mangiare, mantenere cinque figli e pagare il mutuo. È inevitabile fare entrambe le cose, ma anche le grosse produzioni sono realtà formative. Credo che nessuna esperienza sia negativa».

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