ROMA – Prima che della sua realizzazione, della performance artistica di livello assoluto di George C. Scott e del suo unico Oscar alla prima (e unica) nomination come Miglior attore protagonista in una carriera perlopiù da non protagonista come solo il grande Lee J. Cobb prima di lui (Anatomia di un omicidio, Lo Spaccone, Il Dottor Stranamore) – e che rifiutò, seccamente, nella gloriosa notte del 15 aprile 1971 al Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles, perché da sempre contrario alla competizione tra attori e al processo di votazione dell’Academy – è la distribuzione a creare discussione intorno al retaggio di Patton, Generale d’acciaio. A partire dal fatto che quello di Franklin J. Schaffner fu uno dei primi film nella storia del cinema a essere distribuito in VHS assieme a Tutti insieme appassionatamente di Robert Wise e a MASH di Robert Altman con cui condivise pure la stagione dei premi.

Per dovere di cronaca, agli Oscar 1971 Patton, Generale d’acciaio fu un autentico schiacciasassi. Candidato a 10 Oscar, se ne portò a casa 7 tra cui Miglior film, Miglior regia, Miglior attore protagonista e Miglior sceneggiatura originale, contro il solo e unico – ma preziosissimo – Oscar alla Miglior sceneggiatura non originale di MASH che di candidature invece ne ebbe 5. Fu distribuito in sala il 5 febbraio 1970 da 20th Century Fox che ne curò anche la produzione incassando a livello globale una cifra di poco inferiore a 62 milioni di dollari a fronte di un budget di 12 milioni e mezzo di dollari. Un successo pazzesco corroborato dal fatto che il film di Schaffner poté godere di ulteriori finestre distributive tra aprile e dicembre 1970 e l’inizio dell’anno 1971 dove il fu proposto da Fox in un’irriverente double-bill con MASH.

Non fosse altro – irriverente – perché parliamo di due film ugualmente antibellici che denunciano gli orrori della guerra in maniera diametralmente opposta. Altman scelse di farlo vestendo il Vietnam del vestito allegorico della Guerra in Corea e facendosene beffa – esorcizzandola – attraverso un umorismo intelligente e brillante come poche altre commedie hanno saputo fare nella storia del cinema. Schaffner attraverso un kolossal di ferro – o d’acciaio, se preferite – sulla guerra vista a distanza di sicurezza come solo i generali pluridecorati l’hanno vissuta: mandando a morire giovani reclute e ufficiali di rango inferiore al loro. «È sempre stato il mio sogno partecipare a un combattimento all’ultimo sangue, e si sta avverando» dice a un certo punto l’agente scenico principe prima di misurarsi sul campo di battaglia, in Tunisia, contro i nazisti dell’altrettanto glorioso Erwin Rommel nella celebre disfatta del Passo di Kasserine (19-25 febbraio 1943).

Peccato che né Rommel né Patton si scontrarono mai. Il primo, in quella particolare circostanza, rimase a Berlino accanto al Führer, il secondo a Kasserine c’era ma su di un’altura a debita distanza in modo da organizzare strategicamente le truppe Alleate. Infatti, proprio per via della dimensione caratteriale spigolosa e colorata di un Patton eroe tragico shakespeariano e Re tra i suoi uomini che recita monologhi mitologici ed evocativi sull’incrollabile forza in battaglia degli americani, che crede alla reincarnazione e pontifica sulle gesta belliche lontane di romani e cartaginesi, e per cui la guerra è una goduria assoluta e non un mestiere doloroso (e su cui la narrazione gioca in dislivello caratteriale con l’Omar Bradley di Karl Malden), in un primo momento si è andato a configurare Patton, Generale d’acciaio come un film bellico e unilateralmente celebrativo. Non a caso il dichiarato film del cuore di Richard Nixon.

L’allora Presidente degli Stati Uniti possedeva una copia del film fornitagli dalla Fox che si dice vedesse e rivedesse spesso al punto da influenzare alcune delle sue decisioni più critiche della campagna in Vietnam. Una su tutte? L’invasione della Cambogia neutrale nell’aprile 1970. La cosa, siamo abbastanza sicuri qui a Hot Corn, ha influito anche sul perché Patton, Generale d’acciaio sia arrivato così prematuramente sul piccolo schermo. Il 19 novembre 1972 per la precisione, su ABC, nemmeno un anno dopo il trionfo agli Oscar e contro le abituali tempistiche distributive della filiera visto che, almeno all’epoca, prima che un film del genere potesse essere trasmesso in chiaro sul piccolo schermo servivano almeno cinque anni. Eppure, per buona pace di Nixon, quello di Schaffner è veramente tutto meno che un film sulla glorificazione della guerra. Lo è tanto quanto può esserlo Quella Sporca Dozzina nel raccontare di divisa e devianza.

Perché Schaffner riuscì a trascendere il genere bellico in ogni sua possibile sfumatura pro e contro, per parlare di uomini al limite dagli ego ipertrofici in cerca di medaglie e di gloria imperitura e di parabole autodistruttive figlie di prese di coscienza erronee e ribellione innata. Non a caso inizialmente distribuito in terra statunitense sotto il titolo di Patton: A Salute to a Rebel – e per cui fu perfino realizzato materiale promozionale ad hoc – prima che la Fox scegliesse di rimuoverlo del tutto lasciando il solo e secco e più evocativo Patton. Un film di ascese e cadute, Patton, Generale d’acciaio, di azione in tempo di guerra e di diplomazia in tempi politici, sostenuto da uno script forte e di peso percorso di un’ironia sottile di montaggio semantico dove una sequenza si oppone ad un’altra di significato opposto.

Tipo l’apertura di racconto. Il monologo, straordinario nella sua organicità nella riproposizione filologica di più discorsi del Generale così da andare a comporne uno e definitivo da più frammenti, in un totale sullo sfondo della bandiera americana a tutto schermo che diventano particolari e dettagli di medaglie, divisa ed elmetto. Il saluto militare e Patton che si rivolge agli uomini della Terza Armata ma che, montato ancor prima dei titoli di testa, finisce con l’essere prologo impareggiabile dalla non-dichiarata rottura di quarta parete. Come se Patton, nel dettare il tono del racconto introducendoci in prima persona nella sua gloriosa epica militare, parlasse direttamente a noi, al suo pubblico. L’intelligenza del montaggio di Patton, Generale d’acciaio sta nel come le successive due sequenze mostrino, rispettivamente, una disfatta totale dell’esercito americano tra cani abbandonati e razzie sui cadaveri e ovviamente Patton che riceve la sua ennesima medaglia.

E di opposizioni simili che giocano di sfumature e sottigliezze ce ne sono almeno una decina nella narrazione di Schaffner, a conferma di una cifra stilistica e artistica di non poco conto. A tal proposito, Scott era assolutamente contrario all’idea di vedere il monologo come primissima sequenza di tutto Patton, Generale d’acciaio (che trovate su Prime Video ed Apple TV+), tanto che in origine sarebbe dovuto essere posizionato dopo l’intermezzo se non perfino alla fine: o almeno così gli aveva fatto credere Schaffner. Fu girato in otto riprese con Scott che insistette per pronunciarlo interamente, a ogni ripresa, piuttosto che riprendere le battute in base alle angolazioni della telecamera. Altri tempi, altro cinema, ma l’intuizione di posizionarlo proprio all’inizio di tutto al punto da scegliere di rimuovere perfino il logo della Fox, ha contribuito a rendere memorabile un film che è davvero molto di più dei suoi 9 Oscar.

Tra l’altro rincorso da tutta una vita in ambienti hollywoodiani. Per anni, infatti, già all’indomani della sua morte nel 1945, si tentò di portare al cinema l’epica di Patton. La principale opposizione fu la vedova Beatrice che non ne voleva sapere in alcun modo di dare il via libera. Questo fino al 1953 quando, dopo la sua morte, il produttore nonché ex-Generale di brigata in pensione che prestò servizio nello staff di George C. Marshall durante la Seconda Guerra Mondiale Frank McCarthy, esattamente il giorno dopo la sepoltura della vedova Beatrice contattò la famiglia Patton per chiedere aiuto nella realizzazione del film. Negarono ogni aiuto e autorizzazione, non che il tempismo fosse dei migliori in effetti, e lo stesso può dirsi dei vertici del Pentagono. In un primo momento, perlomeno, perché nel 1959 George Patton IV e Ruth Patton, figli del Generale ed entrambi sotto le armi, cambiarono idea.

Anche perché, quasi parallelamente, la Fox acquistò i diritti di utilizzazione economica di A Soldier’s Story, l’autobiografia di Omar Bradley del 1951 – e che collaborò attivamente alla stesura dello script come consulente (non senza qualche polemica) – dando il via libera alla produzione di ciò che sarà poi Patton, Generale d’acciaio. Allo script nientemeno che un giovanissimo Francis Ford Coppola che di lì a poco avrebbe esordito al cinema tra Tonight for Sure e Terrore alla 13° ora e che utilizzò come ispirazione primaria Patton: Ordeal and Triumph, biografia di Ladislas Farago del 1963 e che fu poi citato nei crediti come co-sceneggiatore. Buttò giù un primo draft nel 1966 con William Wyler alla regia e Blood & Guts come titolo provvisorio. Bozza ritenuta insoddisfacente dalla Fox che licenziò Coppola dopo che gli executives si opposero all’idea di aprire il film con il discorso di Patton alla Terza Armata.

Lo stesso Wyler si tirò indietro in favore del suo ultimo film, Il silenzio si paga con la vita, con Samuel Fuller a cui fu offerta la regia in un primo momento ma che rifiutò perché da ebreo e da caporale sotto il vero Patton (notoriamente antisemita, nel film non se ne fa cenno) durante la Seconda Guerra Mondiale, si considerava la persona meno adatta ad un simile incarico: «Sarebbe stato difficile per me dirigere un film che glorificasse un uomo che non mi piaceva o non rispettavo» scriverà poi nella sua autobiografia. Quindi il coinvolgimento dello sceneggiatore Edmund H. North, gli altrettanti celebri rifiuti registici di John Huston, Henry Hathaway e Fred Zinnemann, e l’arrivo di Schaffner che ripristinò la visione di Coppola utilizzando molte delle sue idee nello script definitivo. Il resto è storia: Un film di profonda creatività new-hollywoodiana che non smette di stupire cinquantacinque anni dopo.
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