ROMA – Per essere tale la ribellione ha sempre un prezzo da pagare. Altrimenti – nel migliore dei casi – è solo eccentricità ostentata. Nella storia della cultura del Novecento la lista dei ribelli è lunga, ma sono stati pochi quelli capaci di andare fino in fondo, a costo della loro stessa vita. Edward Montgomery Clift fu uno di loro, un’anima inquieta che scelse sempre di fare di testa propria e pagò sempre tutto in prima persona. C’è un libro di John William Law, mai pubblicato in Italia, dal cui titolo si possono capire molte cose riguardo la vita di Clift: The Longest Suicide in Hollywood. Il suicidio più lungo di Hollywood. Bello e dannato, Clift ad un certo punto degli anni Cinquanta aveva Hollywood e il mondo ai suoi piedi, ma scoprì che non era affatto quello che voleva. E agì di conseguenza. Non è un caso se un altro gruppo di ribelli, veri, come i Clash, ad un certo punto di London Calling infilarono una canzone dedicata proprio a lui, The Right Profile, in cui Joe Strummer raccontava della sua carriera, del suo aspetto e del suo essere punk prima ancora che il termine fosse inventato (potete ascoltarla qui).
Non solo: qualche anno dopo, Michael Stipe scrisse una canzone per lui e la mise in Automatic for the people dei R.E.M descrivendone l’alone: Monty got a raw deal. Perché in Monty c’era più della semplice leggenda attorno al mito e fu lui il motivo per cui molti attori vollero diventare attori. Nato nel 1920 a Omaha, nel Nebraska, nello stesso luogo in cui quattro anni dopo sarebbe nato un altro mito (incredibile, ma vero) come Marlon Brando, Monty visse un’infanzia dorata tra tutor e viaggi in Francia e Svizzera prima che la Grande Depressione colpisse le finanze del padre e i Clift si dovettero trasferire a New York. Ed è qui che nasce l’attore, dalla scintilla del palco, della recitazione, che lo porterà alle prime particine a tredici anni e addirittura al debutto a Broadway nel 1934 con Fly Away Home. Aveva solo quattordici anni. Dopo un decennio sul palcoscenico e studiando sotto la guida di Strasberg, Clift volò verso Hollywood, verso il successo, ma anche verso una vita che non voleva. Lo capì dopo.
Perché? Semplice: Clift amava la recitazione, non il successo. Clift amava immergersi nel lavoro e costruire ruoli e personaggi, ma odiava tutto quello che veniva dopo. Le luci, la mondanità, le feste, i rapporti di convenienza da mantenere, le relazioni, il gossip. Ovvero l’essenza stessa di Hollywood. In soli cinque anni, dal 1948 al 1953, Clift firmò un cult in fila all’altro: Odissea tragica di Fred Zinneman – che fu la sua prima nomination all’Oscar – poi Il fiume rosso con John Wayne, quindi Un posto al sole di George Stevens, Io confesso di Alfred Hitchcock e poi – dopo il passaggio forse meno memorabile (ma da recuperare) a Roma in Stazione Termini di Vittorio De Sica – ecco Da qui all’eternità con la sua interpretazione di Robert E. Lee Prewitt, il trombettiere della compagnia e ex pugile finito dentro gli occhi grandi di Donna Reed. Fu Frank Sinatra a vincere l’Oscar, ma Clift – alla terza nomination in cinque anni – si rubò il film.
Qui inizia un’altra storia: il 12 maggio del 1956, dopo una serata a casa di Elizabeth Taylor, Clift si schianta su Summitridge Drive, a Beverly Hills, con la sua auto su un palo del telegrafo. Sarà la stessa attrice – sua grande amica – a salvarlo e a bloccare i fotografi dal pubblicare le foto. Dopo l’incidente, chiunque si sarebbe ritirato, finito per sempre. Non lui. Il viso mutò espressione e lui, dopo un lungo periodo, ritornò sul set e girò un pugno di film che per altri attori sarebbero stati impossibili da girare. Non solo: usò i postumi dell’incidente per creare personaggi enormi, più grandi della stessa vita: il soldato timido Noah Ackerman ne I giovani leoni (dove c’era anche Brando), il dottor Dr. John Cukrowicz ne Improvvisamente l’estate scorsa (tra la Taylor e Katharine Hepburn) e infine l’apice, Perce Howland ne Gli spostati di John Huston.
Più che un film, il testamento del Sogno Americano: l’ultima volta sul set per Clark Gable e Marilyn Monroe e Clift che nel ruolo di un cowboy fallito sintetizza tutta l’assurdità della vita. Basterebbe una sola scena – quella in cui il suo Perce chiama la madre da una cabina telefonica e in cui le parole dell’attore si mescolano a quelle del personaggio – per una carriera intera. Ma c’era sempre molto altro in Edward Montgomery Clift. Se ne andò giovane, il 22 luglio del 1966, a nemmeno 46 anni. Il suo corpo oggi è sepolto al Friends Quaker Cemetery, a Brooklyn, ma la sua lezione non è mai così viva, soprattutto in tempi di conformismo esasperato, in tempi in cui la ribellione si fa solo se conviene.
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