MILANO – Anche se poi un altro paio di ottimi colpi li ha piazzati (Midnight in Paris e Blue Jasmine, almeno, ma a noi piacque molto anche un piccolo film come Café Society), la verità è che nessun film girato da Woody Allen in questi vent’anni trascorsi da Cannes e da quel lontanissimo 12 maggio del 2005 è all’altezza di Match Point. Un thriller filosofico più vicino a Crimini e misfatti che alle cose più recenti girate, un film che finge di seguire la lezione di Alfred Hitchcock per poi dilettarsi in realtà con un tema ben più elevato che la semplice tensione fine a se stessa. Si parte con una tesi, che gli spettatori più spavaldi liquidano subito con un’alzata di spalle nonostante ci sia rinchiusa l’essenza dell’intera pellicola: «Chi disse: “Preferisco avere fortuna che talento”, percepì l’essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo…».

E qui cominciano le crepe: è il primo momento in cui Match Point inizia a parlare direttamente a chi guarda. Fortuna o talento? Talento, ovviamente. Che domanda sciocca. E invece no, perché minuto dopo minuto le certezze degli spettatori vengono smontate minuziosamente dallo script nichilista firmato da Woody (per cui prese la nomination all’Oscar, poi persa perché la statuetta andò a Crash di Paul Haggis, a proposito di talento e fortuna) che ci porta dentro la vita di Chris Wilton (Jonathan Rhys-Meyers, mai più tanto bravo, ma perché?). Chris è ambizioso, molto ambizioso, anzi troppo ambizioso, perché sogna una vita diversa, sogna la Londra dei piani alti, riesce a ottenerla e ad arrivarci prima che Nola Rice, alias Scarlett Johansson (doveva essere Kate Winslet, e sarebbe stato un altro film) gli faccia saltare in aria tutto.

«Sofocle ha detto: “Non venire mai alla luce può essere il più grande dei doni”». E allora eccolo il manifesto nichilista di Woody, sbandierato e mescolato con l’amata opera, da Giuseppe Verdi e Il trovatore a L’elisir d’amore di Donizetti, opera e tennis, filosofia e amore, con i due fratelli Matthew Goode e Emily Mortimer, belli e perfetti come tutti gli Hewett, gente che non ha mai dovuto faticare per avere quello che ha. Gente che non conosce fortuna o talento. Perché? Perché loro sono, semplicemente, nati dalla parte giusta e non hanno bisogno di fortuna o talento. Una volta visto il film, difficile dimenticare almeno tre scene di Match Point, tra le molte: l’inseguimento folle di Chris a Nola nella campagna inglese in preda al desiderio sotto la pioggia; la visita alla Tate e infine quell’anello che si ferma sul ponte, beffardo, in bilico tra talento e fortuna, con Scotland Yard costretta a cambiare teoria.

E allora, per rispondere alla domanda iniziale, sì, Match Point è l’ultimo capolavoro di Woody, perché è un film lucido e cattivo, spietato e modernissimo, perché Johansson e Rhys Meyers sono una coppia perfetta, perché è un film che rimane nella testa dello spettatore per mesi, per anni, torna addosso ogni volta che una pallina corre sul net e cade di qua. O di là. «A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no e allora si perde». E allora la domanda si ripropone: talento o fortuna? La risposta questa volta tarda ad arrivare perché, in centoventiquattro minuti, Woody ha smontato tutte le nostre certezze…
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