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Marilyn, Joe DiMaggio e quella lontana notte di settembre a New York

Un vestito, la folla, Billy Wilder. Cosa accadde quella sera sul set di Quando la moglie è in vacanza?

Marilyn Monroe in un dettaglio del manifesto di Quando la moglie è in vacanza.

ROMA – Rabbia, furore, sangue italiano in ebollizione. Non gli ci volle molto per diventare paonazzo. Sua moglie era in piedi su una grata del marciapiede dalla quale sbuffava lo spostamento d’aria della metropolitana. Il vestito bianco si gonfiava come un paracadute e lei, con quelle gambe da urlo, diceva: «Ah, che delizia!». L’uomo accanto era cotto a puntino, si celava dietro un imbarazzo adolescente e con garbo le rispondeva: «Frescolino alle caviglie, vero?». Ma no, non era lui il terzo incomodo, perché quell’uomo faceva parte del copione del film che stavano girando, Quando la moglie è in vacanza. Lui era calcolato, al contrario degli altri duemila asserragliati attorno alla grata sbuffante, in un angolo di cemento tra la Lexington e la 52ª strada.

Dietro le quinte del mito, tra la folla e quel vestito…

Il marito si chiamava Giuseppe Paolo DiMaggio, detto Joe, e se in quel momento avesse avuto una mazza in mano non sarebbero state palle da baseball quelle che avrebbe mandato fuori campo. Era la sera del 15 settembre 1954 quando la troupe di Quando la moglie è in vacanza, iniziava ad allestire quell’angolo di strada di New York. Dove oggi sorgono uffici e una steakhouse per palati fini, all’epoca c’erano il Trans-Lux Theater, un negozio di liquori e una gioielleria. Il mostro della laguna nera era in cartellone e – con un discreto numero di comparse – anche gli attori Tom Ewell e Marilyn Monroe fingevano di uscire dal cinema. «In fondo non era cattivo, forse cercava solo un po’ d’affetto», diceva lei parlando del mostro, passo dopo passo in direzione della grata.

«In fondo non era cattivo, no?». Marilyn e Tom Ewell.

Alle spalle dell’occhio della cinepresa, Billy Wilder, primo di molti uomini a guardare la scena che avrebbe fatto ripetere quattordici volte. Quattordici. Ormai era passata la mezzanotte. Oltre al manipolo di curiosi che si erano affacciati anche dall’altro lato della strada, erano accorsi una ventina di fotografi e cineamatori. Le riprese del film si erano fermate per consentire alle voraci macchine fotografiche di consumare il loro pasto. Nessuna imboscata. Erano tutti attesi per l’evento, perché qualcuno quella sera ci vide molto lungo. Ingaggiato come fotografo di scena, un certo Sam Shaw si ricordò di alcuni scatti che aveva fatto quasi quindici anni prima al parco divertimenti di Coney Island. Uscendo dalla corsa con i cavalli di legno, alcuni clown azionavano un congegno che sputava getti di aria compressa dai buchi sul pavimento. L’intento? Proprio quello, sì: sollevare la gonna delle signorine.

«Un certo Sam Shaw…». Qui con Marilyn.

Shaw suggerì di immortalare il momento e usarlo come lancio promozionale del film. Ma a quel punto, perché non chiamare anche i fotografi delle agenzie di stampa? E magari lasciar trapelare la notizia delle riprese affinché i curiosi potessero accalcarsi come api al miele. Ci sarebbe stato chiasso? Assolutamente. Sarebbe andato in tilt il traffico? Magari. Gli uomini avrebbero tifato per il vento, inebriati dall’entusiasmo ormonale che gli avrebbe impedito di realizzare qualcosa di scioccante: nell’intercapedine sotto la grata c’era un loro simile, un uomo della troupe che azionava il ventilatore. Chissà quanti altri momenti nella vita di costui potranno aver eguagliato quel paio d’ore di lavoro.

La scena.

Marilyn, in quel momento, era Marilyn fino alle ossa. Probabilmente più di quanto non fosse mai stata, prima o dopo. Norma Jeane Baker non c’era più. Marilyn Monroe era la diva la cui immagine sarebbe per sempre rimasta immortalata negli scatti di quella sera. E scolpita nei sogni del maschio medio di mezz’età, tra cui giocatori di baseball, drammaturghi e presidenti degli Stati Uniti. Un’immagine che un giorno lei avrebbe iniziato a sostenere con fatica. Negli anni Cinquanta qualunque donna si sarebbe spostata all’istante da un getto d’aria, con chissà quali gesti e parole per mascherare l’imbarazzo. Marilyn era invece l’aliena, arrivata sulla Terra dall’onirico pianeta del cinema dove sfavillante era l’aggettivo più modesto.

Marilyn ovunque: un omaggio su un treno a Manhattan.

Davanti alla macchine fotografiche e ai flash, si lanciava in ammiccamenti alle prese con quel vestito bianco che non voleva saperne di stare giù. Difficile dire se fosse più discola lei o lo sbuffo d’aria. Di fronte allo spettacolo della moglie, sposata otto mesi prima, Joe alzò i tacchi e se ne andò infuriato. Non riuscì completamente a sbollire nelle ore successive e quando anche Marilyn rientrò a notte fonda, le urla echeggiarono in tutto il St Regis-Sheraton Hotel, tra la 55ª e la Fifth Avenue. Si narra che il giorno dopo sul set, fu necessario all’attrice un po’ di make-up aggiuntivo per coprire qualche graffio. Trascorsero tre settimane prima che l’avvocato di lei andasse in tribunale a depositare l’istanza di divorzio. «Crudeltà psicologica», riportava l’atto.

Il murales dedicato a Quando la moglie è in vacanza negli studi della Fox, a Burbank.

Eppure quella sera Marilyn divenne un’icona pop. Non perché in Quando la moglie è in vacanza c’è una scena in cui le si alza il vestito, nossignore. Nel film quella sequenza è piuttosto veloce ed edulcorata. Niente di memorabile. Si compone addirittura di due riprese effettuate in luoghi diversi, la prima parte newyorchese con la folla e la seconda parte negli Studi della 20th Century Fox di Los Angeles, con ricostruzione scenografica del negozio, del marciapiede e della grata. La Marilyn che con un radioso e seducente sorriso spinge in basso il vestito, incisa nella memoria di uomini e donne di diverse generazioni, è un’altra: quella degli scatti del 15 settembre 1954, quella che guarda dritta nella lente del suo amico Sam Shaw e non pensa a quello che sarebbe accaduto dopo.

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