MILANO – Era d’estate, tanto tempo fa. John Fitzgerald Kennedy era ancora vivo, il sogno americano anche. Erano i primi giorni d’agosto, una notte troppo lunga, affollata di ombre nere e fantasmi. Era il 5 agosto del 1962 quando Marilyn Monroe si lasciò scivolare via, dentro l’oblio, mentre il mondo girava due epoche indietro e gli scandali erano ancora in bianco e nero. Se ne andò in fretta, tirandosi dietro uno squarcio di sipario. Un lembo però abbastanza grande per rendere evidente a tutti che la fabbrica dei sogni poteva generare anche incubi. La fonte era la stessa. La gente inorridì quando la notizia arrivò alla radio al mattino, perché nessuno poteva minimamente immaginare che dietro la bellezza di quel volto perfetto potesse nascondersi una crepa. L’inizio di un cedimento che avrebbe seppellito il mito.
Eppure Marilyn Monroe in realtà dentro quella notte d’estate non c’era. Non era lei a stare distesa su quel letto, non era suo nemmeno il corpo. In quella notte c’era solo Norma Jeane Mortenson, la ragazza di umili origini che era partita dal nulla, la bimba senza padre e con una madre schizofrenica capace di diventare il simbolo di Hollywood. La donna più desiderata d’America, cresciuta in una casa famiglia. Era lei, Norma Jeane, ad apparire ogni volta che se ne andava Marilyn Monroe. Norma Jeane era la normalità, era la donna che sapeva che i diamanti sono sciocchezze, che la fama non produce nulla e che la gloria è sempre e solo passeggera. Non c’è altra verità. Perché? Perché la vita vera è altro. «La felicità è un’altra cosa», disse in un’intervista un anno prima di morire. «Questo qui è successo, fama. Non è felicità…».
Il successo non placa l’inquietudine. Il clamore della folla e il chiasso dei riflettori non alleggeriscono la solitudine. Anzi, quando tutto si spegne, dopo i titoli di coda, è sempre peggio. Diventa sempre più pesante. Il silenzio si amplifica e ti lascia da solo con i tuoi demoni. Lo sapeva Marilyn, perché aveva conosciuto James Dean prima e Monty Clift poi, altri due irregolari, inquieti, talenti assoluti incapaci di gestire la vita e i loro problemi, figurarsi una carriera intera. Idoli fragili e per questo amati di un amore così totale, infinito, eterno. Perché gli eroi son tutti giovani e belli, no? Sono immortali perché non hanno conosciuto il declino e chissà che Marilyn, in quella notte d’agosto, non sia riuscita ad avvertire la fine reale, pronta ad accadere. Inevitabile e indimenticabile. Come lei.
Eppure, dietro il mito e oltre le pagine della leggenda, dopo Ana De Armas in Blonde, biopic di Andrew Dominik (amato e odiato in ugual misura) tratto dal libro di Joyce Carol Oates, qualcosa per ricordare Marilyn Monroe (anzi Norma Jeane) possiamo ancora farla: superare i luoghi comuni, le banalità da social e le frasi fatte e riscoprirne la modernità, il (difficile) tentativo di risultare credibile anche con quel volto e con quel corpo in un’epoca profondamente maschilista, anni luce lontano dal MeToo. Andatevi a rileggere cosa pensava, cosa diceva, rivelando quella fragilità infinita che la accompagnava dall’infanzia e che poi l’avrebbe condannata: «Quando ero piccola, nessuno mi diceva mai che ero carina. Bisognerebbe dirlo a tutte le bambine. Anche se non lo sono». Lacrime. Sipario.
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