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La Zona d’Interesse | Jonathan Glazer, il peso dell’indifferenza e un capolavoro assoluto

Sandra Hüller, il libro di Martin Amis, Hansel e Gretel, il genocidio. Ecco perché è un capolavoro

Sandra Hüller in una scena di La Zona d'Interesse di Jonathan Glazer
Sandra Hüller in una scena di La Zona d'Interesse di Jonathan Glazer

ROMA – Liberamente ispirato al romanzo pubblicato nel 2014 da Martin Amis, La Zona d’interesse è la storia, apparentemente normale, di una famiglia tedesca, apparentemente normale, che vive una quotidianità fatta di gite in barca in una villa con piscina, di lavoro d’ufficio e domeniche in riva al fiume. Tutto apparentemente normale. Peccato che il capofamiglia sia il gerarca nazista Rudolf Höss (Christian Friedel) e la deliziosa villetta con giardino in cui vive assieme alla moglie Hedwig (Sandra Hüller) e i figli in una surreale serenità sia situata proprio al confine con il campo di concentramento di Auschwitz. Parte esattamente da qui La Zona d’Interesse, il nuovo film del regista britannico Jonathan Glazer insignito del Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes – dove gareggiava in concorso – e candidato ora a cinque Oscar tra cui miglior film e regia.

Christian Friedel in un momento di La Zona d'Interesse
Christian Friedel in un momento del film

Inevitabilmente, La Zona d’Interesse ha rappresentato per Glazer – ebreo londinese – un progetto estremamente personale e sentito. Dopo lo strabiliante (e sottovalutato, quasi dimenticato) Under the Skin con Scarlett Johansson (lo ritrovate su AppleTv e Prime Video) ha dedicato due anni alla lettura approfondita del romanzo di Amis. Poi una visita ad Auschwitz per fare ricerche sul posto in cui rimase colpito proprio dalla residenza di Höss. Grazie ad un’autorizzazione speciale ottenuta dal Museo, Glazer ha potuto accedere a fonti di prima mano da parte dei sopravvissuti all’orrore nazista nei campi e di chi, la casa della famiglia Höss, ebbe modo di frequentarla attivamente. Da qui la scelta da parte del regista di usare i veri nomi delle persone coinvolte anziché proteggerne l’anonimato dietro a un nome di fantasia, così da enfatizzarne l’autenticità.

Sandra Huller e la banalità del male.

Da qui, ecco il capolavoro,  un ritratto dettagliato e senza filtri di un’epoca spaventosa, straniante – illogica all’occhio esterno ma tremendamente lucida nei suoi equilibri interni da regime – restituita in immagine da Glazer attraverso costruzioni rigorose e freddamente geometriche dal montaggio armonioso e morbido che raccontano di gesti semplici di vita quotidiana mentre il mondo intorno viaggia diretto verso l’apocalisse. Un contrasto dalla forbice valoriale incalcolabile di (dis)umanità lacerata, ribaltata, ricalibrata secondo paradigmi che danno per scontato l’orrore (la pelliccia indossata da Sandra Hüller è agghiacciante), riportata in scena da Glazer in accostamenti di violenza mai mostrata ma solo desunta e derivata, accostamenti che diventano sempre più incisivi lungo il dispiego dell’intreccio a ritmo cadenzato. Fino all’ultimo, il più doloroso – e al contempo prodigioso – che chiude la narrazione avvolgendo il climax di sapori e suggestioni di grande cinema mitologico.

Una scena del film
La tranquillità dietro il genocidio: una scena del film

In chiusura Glazer compie un salto tra epoche, che in un semplice stacco di montaggio permette a La Zona d’Interesse di annientare – interamente – tutti i propositi di gloria degli Höss, in favore del valore della memoria e della lezione di un dolore, quello dell’Olocausto, che non possiamo permetterci di dimenticare. Incredibile il lavoro sul suono e sulla colonna sonora di Mica Levi per un film che, minuto dopo minuto, diventa un’opera d’arte contemporanea, una visione che ammutolisce e stordisce. Ma, oltre a essere cinema sublime e uno dei pochi capolavori visti negli ultimi vent’anni, La Zona d’Interesse è anche una lezione sulla deumanizzazione e sull’indifferenza, su quanto si possa fingere normalità mentre a poca distanza – metri o kilometri non fa differenza – la gente muore. Giorno dopo giorno. Non a caso durante la premiazione agli ultimi Bafta il produttore del film, James Wilson, ha espressamente citato Gaza. Perché la memoria è una cosa viva, non è un semplice museo…

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