ROMA – Qualcuno la ricorderà, perché nell’estate del 2000 tenne banco sulle prime pagine di tutti i giornali: la vicenda del K-141 Kursk, sottomarino russo a propulsione nucleare ritenuto inaffondabile che colò a picco nel mare di Barents. Mentre i ventitré marinai superstiti – su 118 arruolati – lottavano per sopravvivere a bordo del mezzo adagiato a 500 metri sul fondo del mare, le loro famiglie combattevano disperatamente contro ostacoli burocratici e impedimenti di ogni sorta, per avere delle risposte e riuscire a salvarli. Parte proprio da qui Kursk di Thomas Vinterberg, solida pellicola del 2018 tratta dal bel romanzo Kursk – La storia nascosta di una tragedia di Robert Moore (in Italia edito da Rizzoli) che venne presentata in concorso a Toronto e poi sparì nel nulla prima di riapparire ora al cinema tra le uscite estive.
Meriterebbe la visione solo per un cast di tutto rispetto, con Matthias Schoenaerts, Léa Seydoux e Colin Firth come volti di copertina, ma ci sono anche August Diehl (recentemente ammirato in La Vita Nascosta), Peter Simonischek, Max Von Sydow e quel Michael Nyqvist scomparso poche settimane dopo la fine della lavorazione a completare il tutto. E poi c’è l’esigenza di Vinterberg di raccontare una straordinaria storia di sacrificio, verità, ma soprattutto di tempo: «Lo script firmato da Robert Rodat tratta il tema universale del trascorrere del tempo che – prima o poi – tutti noi dobbiamo affrontare. Kursk tocca ovviamente temi politici e parla di una bellissima storia d’amore, ma è stato soprattutto un’opportunità fondamentale per parlare del tempo che fugge. C’è un coraggio estremo nel modo in cui queste persone fanno i conti con il bisogno di dover dare un ultimo addio…».
Per un’impresa filmica non indifferente, specie perché – considerata l’assenza di superstiti – non è stato facile per Vinterberg e lo sceneggiatore Rodat ricostruire la verità partendo dalle pagine del libro di Moore: «La tragedia di Kursk è una vicenda che conoscevo solo a grandi linee, ma la cosa che mi è rimasta impressa, riportata dai telegiornali, sono stati i colpi provenienti dallo scafo del sottomarino, questo disperato grido d’aiuto da parte dei superstiti. Robert (Rodat) si è sforzato di trovare la verità celata in questa storia. È stata una enorme sfida perché nessuno sa esattamente cosa sia successo davvero. Non c’è nessun superstite e quindi abbiamo dovuto circondarci di quanti più esperti possibile». Specie perché in certi punti Vinterberg e Rodat furono costretti a rimescolare – e non poco – le carte narrative.
Basti pensare al fatto che Kursk si sarebbe dovuto girare nel settembre 2016, per poi essere rimandato di circa un anno perché il Ministero della Difesa russo si rifiutava di rilasciare l’autorizzazione – e più in generale – l’accesso a informazioni e luoghi riservati. Il motivo? Il rischio (serio) che la figura di Vladimir Putin potesse uscirne compromessa. Al tempo della tragedia infatti si era insediato al Cremlino da appena tre mesi, tanto che il suo personaggio sarebbe dovuto comparire in almeno cinque scene. Parola di Luc Besson, qui executive di lusso in quanto presidente della EuropaCorp che ha prodotto Kursk, che avrebbe voluto apporre il focus narrativo sulla missione di salvataggio piuttosto che in termini politici. Perché sì, fu (anche) un fatto politico la tragedia del Kursk.
Specie considerando che il governo russo rifiutò l’aiuto dei governi stranieri per cinque giorni prima di accettare tardivamente quello del governo britannico e di quello norvegese. Cinque giorni in cui forse, chissà, non ci sarebbe nemmeno stata una storia su cui Vinterberg potesse costruirci sopra un film. E dopo quel The Interview firmato Seth Rogen e James Franco che incrinò, e non poco, i rapporti diplomatici tra Stati Uniti d’America e Corea del Nord, il rischio era davvero troppo alto con Kursk. Ciò che resta ventitré anni dopo sono i fatti, e proprio di quelli Vinterberg si serve per realizzare un dramma bellico dal taglio squisitamente umano su come gli interessi e le prese di posizione politiche possano intralciare il poter fare unicamente la cosa giusta.
Dopo una prima fase di setup in cui Vinterberg racconta della vita comune dei suoi protagonisti con tanto di matrimonio gioioso prima della partenza – che non può rievocare il miglior Michael Cimino de Il Cacciatore nel raccontare della serena quiete prima della tempesta di dolore – Vinterberg serra le fila di un film tesissimo e distribuito equamente su quattro archi narrativi debitamente armonizzati da un montaggio efficace e delicato. Ognuno di essi è guidato dai volti noti del comparto attoriale. C’è quindi Schoenaerts (Mikhail Averin) nelle profondità del mare di Barents, in una performance toccante che lo vede tanto coraggioso quanto fragile, un’intensa Lea Seydoux (Tanya Averina) in cerca di giustizia e di risposte in superficie, e un Simonischek/Ammiraglio Vyacheslav Grudzinsky epico e commuovente.
Non ultimo Colin Firth (Commodoro David Russell), che con la sua tipica verve, oltre a tenere testa ad una leggenda come Max Von Sydow (Vladimir Petrenko) nell’unica (piccola) scena che li vede assieme, è senz’altro tra le cose migliori di Kursk. Un film che magari non avrà la cifra stilistica né la forza narrativa necessaria per essere un instant classic del genere (per quella chiedere a U-Boot 96 di Wolfgang Petersen), ma che si conferma davvero come l’ennesima grande pagina di cinema offertaci da un regista come Vinterberg che sbaglia sempre poco. Un autore che, oltre al sorprendente Festen e al durissimo Il Sospetto, di lì a poco – due anni per la precisione – sarebbe arrivato all’agognato Oscar con Un altro giro, e tanto basta per giustificarne la visione…
- INTERVISTE | Seydoux: «France, Bruno Dumont e i media»
- OPINIONI | Un altro giro, il libero inno alla vita di Thomas Vinterberg
- INTERVISTE | Vinterberg: «Un altro giro? La mia risposta alla razionalità»
Qui sotto potete vedere il trailer del film:
Lascia un Commento