ROMA – Basato su una storia vera dove il grande amore incontra un indicibile tradimento attraverso gli occhi e le azioni di Ernest Burkhart e Mollie Kyle, Killers of the Flower Moon segue i sospettosi omicidi di alcuni membri della Nazione Osage, popolo di nativi americani residenti nella regione delle Grandi Pianure che negli anni Venti divennero alcune delle persone più ricche del mondo dopo che furono scoperti dei giacimenti di petrolio sotto le loro terre. Parte da qui il nuovo ambizioso film di Martin Scorsese – presentato fuori concorso a Cannes e dal 19 ottobre in sala – a quattro anni da The Irishman che fu atto conclusivo e crepuscolare della sua personale rilettura del cinema gangster iniziata con Mean Streets – Domenica in Chiesa, Lunedì all’inferno. Qui Scorsese cambia orizzonte e si avventura nel terreno del western storico-urbano dal marcato taglio sociale regalandosi un’occasione narrativa davvero eccezionale.
Le morti degli indiani Osage andarono a moltiplicarsi. Dal semplice caso isolato divennero dozzine e dozzine. Iniziarono a morire ammazzati: sparati, avvelenati, vittime di agguati e imboscate e sempre in circostanze misteriose ed enigmatiche, mai realmente approfondite dagli uomini di legge. In questo strascico di Vecchio West uomini di potere come il magnate John Paul Getty e fuorilegge inarrestabili come Al Spencer si trovarono a loro agio crescendo in ampiezza e potenza. Questo finché un giovane J. Edgar Hoover non fu mandato ad investigare assieme a una squadra di agenti scelti dell’FBI di origine indiana chiamati ad infiltrarsi per indagare dall’interno. In questo contesto si inserisce la narrazione di Killers of the Flower Moon e con essa il saggio storico da cui è tratto: Gli assassini della Terra Rossa: Affari, Petrolio, Omicidi e la nascita dell’FBI. Una storia di frontiera di David Grann (portato in Italia nel 2017 da Corbaccio).
Non un tomo squisitamente storico però, sia chiaro. La prosa di Grann è sorprendente nel modo in cui si sviluppa nel suo impianto thriller. Un’opera sconvolgente che ha catturato immediatamente l’attenzione di Scorsese, da sempre lettore e costruttore di immaginari: «Quando ho letto il libro di Grann ho subito iniziato a visualizzarlo. Le persone, le ambientazioni, l’azione, sapevo che dovevo trasformarlo in un film. Con Eric Roth da un paio d’anni stiamo demolendo, ricostruendo e ripensando il copione. Il giallo, dalla sua, fa comodo, ma sappiamo tutti di cosa tratta. Volevo esplorare qualcos’altro: la natura di un intero modo di pensare come complice e causa di un intero genocidio che ha disumanizzato le persone. Una grande storia americana». Una storia, tuttavia, finora solo costeggiata dal cinema hollywoodiano che prima di Killers of the Flower Moon, l’ha vista visualizzata per immagini in sole due occasioni.
Una è Tragedies of the Osage Hills di James Young Deer del 1926. L’altra Sono un agente FBI di Mervyn LeRoy del 1959 con protagonista un sempre efficace James Stewart. Qui invece Scorsese sceglie di raccontarlo servendosi dei suoi due feticci attoriali. Da una parte Robert De Niro alla decima collaborazione con l’amico, dall’altra Leonardo DiCaprio alla sua quinta, a dieci anni di distanza dal pirotecnico The Wolf of Wall Street, che per l’occasione ha chiesto allo sceneggiatore Roth di poter applicare riscritture allo script de Killers of the Flower Moon. In origine infatti avrebbe dovuto interpretare Tom White, eroico agente FBI che lavorò a stretto contatto con Hoover per risolvere la serie di efferati omicidi. Ruolo poi passato al sempre prezioso Jesse Plemons (di nuovo al lavoro con Scorsese dopo The Irishman) in favore di Ernest Burkhart, nipote del William Hale di De Niro.
Al cambio di ruolo di DiCaprio ha coinciso anche un’evoluzione del tono del racconto, passando dal thriller d’azione al dramma psicologico a cornice western («Non è un giallo, ma un chi non l’ha fatto» dirà Scorsese in merito) – e con esso un differente punto di vista narrativo. Come Tom White l’intero racconto sarebbe stato configurato dal punto di vista dell’integerrimo uomo di legge in una struttura tradizionale e (forse) priva di spunti. Come Ernest Burkhart invece, il film procede nelle zone grigie semantiche di un sogno americano annegato nel sangue degli Osage e inciso da Scorsese di dolorose e strazianti iconografie di morte che ci raccontano di razzismo, discriminazione, violenza efferata, cupidigia e amore inaridito sullo sfondo della Frontiera e del suo mito demitizzato come solo seppe fare Michael Cimino con I Cancelli del Cielo quarant’anni fa.
Un ribaltamento di prospettiva dall’eroe all’anti-eroe incarnato da un DiCaprio allo stato dell’arte. Tanto fragile e ingenuo quanto intenso, amorevole e risoluto come Ernest Burkhart. Anime caratteriali opposte e discordanti lasciate vivere in una mimica irripetibile che vede DiCaprio assumere forma e sostanza artistico-attoriale riecheggiante il Jack Nicholson dei tempi d’oro nel suo ghigno ambiguo. Dall’altra parte, un De Niro machiavellico, calcolatore, manipolatore, ora protettore ora carneade degli Osage in un perenne stato di sottrazione emotiva, a cui Scorsese regala un ruolo da villain leggendario con tanto di omaggio tra le righe all’Al Capone del depalmiano Gli Intoccabili. E in effetti c’è qualcosa della pellicola di De Palma nel sapore, nel ritmo e nelle atmosfere sceniche di Killers of the Flower Moon dal momento in cui Plemons/White entra in scena. Una caccia all’uomo rigorosa, al cardiopalma, che regala alla narrazione di Scorsese un ultimo guizzo memorabile.
Fino a quel punto, in verità, la narrazione della pellicola vive di sprazzi e di un andamento non sempre armonioso, naturale. La carneficina degli Osage avviene in modo meticoloso ma convulso, inframezzato da raccordi registici volti a dare sostanza e colore al contesto scenico, che finiscono con il colonizzare buona parte del minutaggio monstre di quasi tre ore e mezza (206 minuti per la precisione). In quei primo e secondo atto non privi di lungaggini però, la bellezza pura delle immagini filmiche di Scorsese fatte di storia, ritualità, tradizione e vita semplice, fanno da padrone. Immagini arricchite dalla battaglia d’ingegni artistici DiCaprio/De Niro come passato e presente del cinema scorsesiano. E futuro, perché in mezzo a due autentici titani del cinema mondiale, la misconosciuta Lily Gladstone si svela al mondo in tutto il suo talento cristallino come il cuore pulsante dell’ultimo lavoro del regista newyorchese.
Un’opera di cui forse, la prima cosa che salterà all’occhio e che la consegnerà di diritto negli annali del cinema – prima della vicenda trattata e dell’altissimo livello recitativo – sarà il suo caratteristico minutaggio. Non che Scorsese non abbia abituato lo spettatore a film fluviali: The Wolf of Wall Street (180 minuti), Casinò (179 minuti), The Aviator (170 minuti), Gangs of New York (168 minuti), ma non è forse un caso se i suoi due lungometraggi di maggior durata siano The Irishman (209 minuti) e proprio Killers of the Flower Moon, ovvero le produzioni nate grazie agli sforzi produttivi – rispettivamente – di Netflix ed Apple TV+ con Paramount Pictures. Opere d’arte concepite quindi per il cinema, in difesa del cinema elevato, privo di aride incursioni commerciali da blockbuster, ma destinate poi, a conti fatti, alla fruizione su piattaforma, in streaming, in virtù di un minutaggio quasi innaturalmente corposo.
Nonostante le dichiarazioni di Scorsese secondo cui: «Viviamo in un’epoca particolare, scelgo di fare film lunghi per un motivo preciso: il pubblico è ormai abituato alle serie, al binge-watching. Ci si chiude in casa e si passano ore a guardare decine di episodi uno dietro l’altro. Quindi perché non farlo al cinema? La mia è una sfida. Cinque ore seduti sul divano non hanno lo stesso valore di 200 minuti in sala? Questa è la mia provocazione» però, è abbastanza chiaro come sia The Irishman che Killers of the Flower Moon vivano di un evidente cortocircuito in termini artistici e produttivi. Questo perché sono film di rottura, anti-sistemici. Opere che si servono delle attuali logiche industriali per poi abbattere dal di dentro quello stesso sistema che le ha realizzate ponendosi in opposizione: quanto di meglio possibile per un rivoluzionario, un figlio della New Hollywood come Scorsese.
A quasi 81 anni Scorsese firma un’opera straordinaria che apre sulle note rock del compianto Robbie Robertson all’ultima collaborazione accreditata, che evolve in una transizione dal bianco-e-nero a colori sul volto di DiCaprio da leggenda, e che chiude con una sequenza meta-linguistica da radiogiornale da applausi a scena aperta. Una pellicola di quelle che per qualsiasi regista rappresenterebbe il film della vita, per Scorsese non sarà nemmeno nei film di riferimento per cui un giorno sarà ricordato, ovvero Taxi Driver, Toro Scatenato e Quei Bravi Ragazzi. Resta la consapevolezza, anzi, la certezza che ogni volta che un autore come Scorsese decide di muoversi nell’impervio terreno del cinema, è certo che ne tirerà fuori un diamante, un gioiello di indiscussa bellezza. E Killers of the Flower Moon, al netto delle debolezze, è cinema allo stato puro: inviolabile, imperituro, inaffondabile, da difendere a ogni costo.
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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