«Beale Street è una strada di New Orleans, dove sono nati mio padre, Louis Armstrong e il jazz. Ogni afroamericano nato negli Stati Uniti è nato in Beale Street, è nato nel quartiere nero di qualche città americana, sia esso a Jackson, in Mississippi, o Harlem, a New York. Beale Street è la nostra eredità. Questo romanzo parla dell’impossibilità e della possibilità, della necessità assoluta, per dare espressione a questo lascito. Beale Street è una strada rumorosa. Lascio al lettore il compito di discernere un significato nelle percussioni dei tamburi». È James Baldwin a scrivere queste parole quando, nel 1974, uscì quello che ad oggi è forse il suo romanzo più celebre: If Beale Street Could Talk. E, a quarant’anni dalla sua pubblicazione, Fandango Libri riporta in libreria Se la Strada potesse Parlare (pp. 214 – 18,50 euro) insieme a La stanza di Giovanni e Congo Square.

In quelle poche righe scritte per accompagnare il suo romanzo più implicitamente schierato, Baldwin racchiude l’essenza stessa del suo pensiero, dei suoi scritti, della sua vita. Solo una manciata di anni prima aveva visto morire, uno dopo l’altro, Medgar Evers, Malcom X e Martin Luther King, simboli di una lotta per l’uguaglianza nell’America della segregazione razziale, della disgustosa arroganza del Klu Klux Klan, della violenza insensata verso gli uomini e le donne di colore, i suoi fratelli e le sue sorelle. Un romanzo nato dal dolore e dalla rabbia ma profondamente intriso di dignità, fiducia, amore. Come quello dei due protagonisti, Tish e Fonny, nati come Baldwin a Harlem e come lui figli simbolici di quella Beale Street di cui hanno raccolto l’eredità.

Una storia portata ora sullo schermo da Barry Jenkins in Se la Strada Potesse Parlare, pellicola fresca di tre candidature agli Academy Awards, tra cui quella per Miglior Sceneggiatura Non Originale. Nomination più che meritata. Jenkins, infatti, prende le parole di James Baldwin per tramutarle in immagini, fedele e rispettoso del testo ma anche altrettanto capace di infondere il suo sguardo personale per creare un parallelo, sottile quanto potente, con la situazione socio-politica attuale degli Stati Uniti.

Come aveva fatto, più esplicitamente, Raoul Peck in I Am Not Your Negro, documentario ispirato all’incompiuto Remember This House, memoir in cui Baldwin rifletteva e ricordava l’impegno civile dei suoi tre amici, in cui il regista creava un parallelo con il movimento e la rilevanza storica del #BlackLivesMatter. Primo di nove figli, cresciuto all’ombra di un patrigno predicatore, James Baldwin, allontanandosi da quell’America razzista e bigotta per rifugiarsi nel sud della Francia, riuscì a tramutare la lontananza in lucidità così da permettergli di analizzare il suo Paese con maggiore incisività.

Una voce scomoda. Nero, gay e di sinistra, sorvegliato dall’FBI e osteggiato da una porzione della sua stessa comunità per le sue preferenze sessuali e l’impegno pacifista. La sua risposta a qualsiasi tipo di intimidazione fu sempre la stessa: continuare a far sentire la sua voce, che fosse tra i banchi di un convegno o tra le pagine di un libro. E Se la Strada Potesse Parlare ne è una dimostrazione. Un romanzo che parla «dell’impossibilità e della possibilità», di provare a continuare a scegliere il proprio destino anche quando se ne perde il comando per la prevaricazione altrui. Un filo rosso che collega ogni suo romanzo, dall’autobiografico Gridalo forte al discusso La Stanza di Giovanni, da Dimmi da quanto è partito il treno fino a Sulla mia testa.

Razzismo, omofobia, conflitto religioso, incarcerazioni di massa, relazioni interrazziali. Molto più di una semplice carriera letteraria la sua. Perché tra quelle parole battute a macchina e quei personaggi che tanto gli somigliavano, c’è una lotta civile combattuta attraverso un’arma potente, la cultura, in grado di regalare una forma di liberà impossibile da negare: la consapelovezza di sé. «La libertà non è una cosa che si possa dare; la libertà, uno se la prende, e ciascuno è libero quanto vuole esserlo».
- Perché Se la Strada Potesse Parlare è un film necessario
- I Am Not Your Negro è l’insostenibile importanza di un documentario
Lascia un Commento