VENEZIA – A più di vent’anni dalla sua ultima – e unica – apparizione alla Mostra, Matteo Garrone ritorna al Lido. Da queste parti lo si era già visto nel 2000, senza troppi clamori, quando era un quasi (anzi, senza quasi) sconosciuto e presentò il suo Estate Romana nella sezione Cinema del Presente. Poi solo Cannes e Berlino. Ora lo ritroviamo con Io Capitano, subito in sala dopo il passaggio in concorso, un film con cui ci porta in Africa, prima nel sub-sahara senegalese di Dakar, poi rapidamente in Mali e – passando per il deserto attraverso il Niger – sino in Libia e nei sobborghi di Tripoli con le sue scogliere nascoste da cui partono pescherecci malandati nel disperato tentativo di raggiungere le coste italiane e l’idea (che spesso rimane solo un’idea, purtroppo) di un futuro migliore.
Un viaggio travagliato raccontato dal punto di vista di Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), due sedicenni senegalesi di Dakar che scelgono la fuga verso il sogno di un Occidente globalizzato visto solo attraverso il telefonino, tra musica e calcio, di cui indossano gli scarti commerciali di trent’anni prima (bravissimi i costumisti a ripescare chicche anni Novanta come la maglia di Larry Johnson degli Charlotte Hornets). L’obiettivo? Aver successo nel mondo della musica e poter dire finalmente di essere loro ad arrivare lassù e: «firmare un autografo a un bianco». Un soggetto complicato Io Capitano, spinoso, difficilissimo da affrontare senza critiche e ostilità – specie al giorno d’oggi – per un uomo bianco e benestante di Roma che osserva il mondo da un punto di vista privilegiato.
Ma Garrone ne esce bene e riesce nell’impresa fondamentalmente perché è un autore onesto che ha scelto di trattare l’argomento nell’unico modo possibile: facendo cinema (e lo sa decisamente fare, da sempre) e stando molto lontano dall’ammiccamento a questo o a quel contenuto pseudo-politico con cui collezionare facili like nel dibattito social che ama dividere, schierarsi e indicare il nemico. No, Io Capitano è una storia d’avventura, una fiaba contemporanea su di un’odissea dei giorni nostri con due protagonisti solo apparentemente insoliti per il genere. Un viaggio raccontato con impronta neorealista, e non solo per l’utilizzo di attori locali e non professionisti e neanche per la scelta di girare interamente in lingua wolof.
Piuttosto perché le case sovraffollate di Dakar e le sue famiglie troppo numerose riecheggianti la Milano di Rocco e i suoi fratelli, e la voglia di fuggire e di realizzarsi con le proprie forze ricordano molto il clima di dinamica povertà degli anni Cinquanta italiani e del suo cinema. A mancare però è l’intento documentaristico del voler svelare un mondo sconosciuto ma familiare, non c’è alcun intento di denuncia in Io Capitano, solo il desiderio di provare a sognare e soffrire insieme ai protagonisti, seguirli come seguiremmo Pinocchio nella loro umanissima e durissima (dis)avventura, e tifare per loro nella liturgia del susseguirsi omerico di aguzzini, personaggi truffaldini e cattivi o cattivissimi di varia natura divinamente disegnati (che purtroppo in questo caso, a differenza di Mangiafuoco, sappiamo esistere davvero).
Per Garrone insomma (di cui abbiamo imparato a conoscere l’anti-intellettualismo negli anni), fare cinema vuol dire comportarsi come un artista a cui interessano cose, non teorizzare o dimostrare delle tesi. Come qualcuno potrebbe pensare, non c’è appropriazione indebita di storie altrui in Io Capitano. Garrone non ha intenzione di travestirsi da autore africano, ma vuole provare a ribaltare il punto di vista che troppo spesso abbiamo verso quelle persone che chiamiamo genericamente immigrati (come osservato nel lavoro di esordio, Terra di mezzo) e accostarci alla loro esperienza attraverso il miracolo del cinema, vedendoli questa volta al contrario, dalla loro prospettiva, come e-migranti. Per farlo sceglie di caratterizzare Io Capitano con un taglio non realistico ma favolistico dell’astrazione di un racconto dalla grammatica narrativa squisitamente europea.
Tutto è lasciato all’immediata e istintiva empatia che lo spettatore prova di fronte due ragazzini che vivono esperienze terribili, ma che grazie a quel tipo di narrazione tra Collodi e Omero non interpretiamo come estranee, tutt’altro: riviviamo con loro la schiavitù, la tratta, il campo di concentramento. E per empatizzare con queste categorie non serve neanche l’utilizzo di una violenza esplicita e feroce. A Garrone basta un semplice dettaglio, un’allusione, un’immagine, per mettere lo spettatore nelle condizioni di comprendere benissimo cosa sta succedendo e a che tipo di dolore siamo di fronte (da segnalare assolutamente le musiche di Andrea Farri). È tutto umano in Io Capitano. È tutto nostro come la lingua che parliamo. Abbiamo imparato sin da piccoli a riconoscere quei luoghi, quegli sguardi, quella tipologia di violenza.
Li abbiamo già vissuti e sappiamo perfettamente fino a dove la cattiveria umana può spingersi. Il sogno, l’incosciente ostinata speranza e un appena accennato misticismo sono ancora una volta (come già in Gomorra, Pinocchio, Reality), le uniche chiavi per il superamento del meccanicismo sociale e l’accesso alla libertà e all’autodeterminazione, da perseguire ad ogni costo, con coraggio. Io Capitano è un film intenso, universale, semplice e profondo allo stesso tempo che vive della sottile, umana e poetica visceralità artistica del suo autore.
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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