ROMA – Un film che cattura l’attenzione dalla prima immagine, dalla copertina, da quella carcassa di toro girato con la pancia all’insù. Dietro, due figure umane, un nano ed un ragazzo molto alto, entrambi in camice. Lo scatto è la rappresentazione perfetta del cinema di Matteo Garrone, interpretazione pittorica di una realtà che non si vuole mai imitare, ma narrare, decrittare. E d’altronde è anche la storia dello stesso regista, che dopo un passato in pittura (e uno meno fortunato da tennista) opera una trasposizione artistica nella sua quarta opera – che andò a Cannes nel 2002, alla Quinzaine des Réalisateurs – che segna uno spartiacque per la sua produzione successiva perché L’imbalsamatore (su Prime Video) è la storia di un coinvolgimento emotivo cupo, noir, che lo spettatore vive minuto dopo minuto, scena su scena.
Protagonisti sono il nano Peppino Profeta, interpretato da Ernesto Mahieux, e Valerio, ovvero Valerio Foglia Manzillo, giovane curioso e affascinante che presto sarà l’ossessione profonda e grigia di Peppino. In una serie di campi lunghi che raccontano un’estetica nuova, all’interno di un genere creato (forse) dallo stesso Garrone, lo sviluppo della storia prosegue parallelamente e senza mai prendere il largo da quella che è la pittura garroniana. La nebbia della pianura padana, le anse del Po grigie e inquietanti, i litorali vicino Castelvolturno, simbolo di un universo che appartiene a ciò che spesso piace raccontare a Garrone: gli emarginati, coloro che non hanno avuto il privilegio. E poi ecco il quartiere Coppola, nel casertano, fatiscente complesso di palazzi prossimi alla demolizione. Il tutto sempre con una continuità visiva che sottolinea il peso di ombre e dubbi che gravano costantemente sui personaggi.
In questa scenografia il regista gioca, camera a mano, instaurando un’intesa con i personaggi e con i loro conflitti. Ancora uno sguardo pittorico: come se Garrone cercasse, pennellata dopo pennellata, di dar forma ad un quadro onirico e destabilizzante, un racconto di cronaca nera. Ispirato liberamente alla vicenda del nano di Termini, L’imbalsamatore è un noir puro che prende sempre più una piega verso il basso, fino al tragico finale, raccontato sapientemente attraverso la fotografia di Marco Onorato. Quarta film di Garrone, dopo Terra di Mezzo, Ospiti ed Estate Romana, rimarca definitivamente quello che sarà il punto di forza di tutta la filmografia: narrazione sì, ma attraverso un esercizio stilistico che va oltre, fino ad un realismo quasi grottesco, da fiaba nera. Come i racconti di Giambattista Basile a cui il regista è particolarmente legato e lo dimostrerà tredici anni dopo – nel 2015 – con Il racconto dei racconti.
Ma cosa lascia allo spettatore L’imbalsamatore? L’interpretazione di due macrocosmi. Il primo è fotografato nello stile di vita di Peppino, un tassidermista che per sopperire alla sua solitudine si circonda di vizi, si lega alla malavita e a ricchezze materiali. L’altro, Garrone lo racconta come una routine più squallida, imbarazzante, quella di un emisfero che conserva con se gli affetti puri, l’amore autentico, le ipocrisie della possessione. E tutta la forza del regista sta precisamente qui: in una ricerca del vero che però non è mai artificiosa, dentro un contesto in cui si lima, si sottrae, si cambia o si aggiunge. Fuggendo dagli stereotipi classici e raggiungendo uno stile a sé, inimitabile. E, forse, inarrivabile.
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