MILANO – Accadde poco più di cento anni fa, era il 14 luglio del 1918, quando a Uppsala – nel Sud della Svezia – nasceva Ingmar Bergman, destinato a diventare un cineasta tra i più influenti del cinema del Novecento e ancora oggi tra le figure più rilevanti (e citate) della settima arte. Figlio di un pastore luterano e di un’infermiera di Stoccolma, la leggenda narra che il giovane Ingmar si avvicinò, ancor prima che al cinema, al teatro dirigendo svariati spettacoli presso una compagnia filodrammatica universitaria. Nemmeno a dirlo, il talento del giovane apprendista regista non passò inosservato, le proposte di lavoro furono molte e Bergman riuscì presto a riscuotere consenso all’interno dell’intellighenzia svedese. E iniziò il suo viaggio.

E fin qui, nessun problema. Ma chi era Bergman? E perché un secolo dopo la sua lezione è ancora moderna, in un’era distratta e frenetica come quella attuale? Artista totale, poliedrico, maniacale nella messa in scena e nella cura tecnico-visiva dell’immagina, eppure capace, al tempo stesso, di essere anche raffinato sceneggiatore, scrittore ed autore imprescindibile. Il suo cinema è figlio della cultura luterana – alla quale fu educato dal padre sin dalla più tenera infanzia – ma anche di una particolare sensibilità, di uno sguardo quasi scientifico nello scandagliare l’interiorità umana, i sentimenti, le emozioni, unito spesso proprio all’adozione di tecniche teatrali per intensificare l’attenzione dello spettatore.

Scrive Bergman nella sua autobiografia, Lanterna Magica, in Italia edita da Garzanti: «In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà». Ed è proprio questa dimensione fortemente autobiografica del suo cinema a caratterizzare una carriera copiosa e prolifica, densa di riflessioni sulla natura ultima dell’individuo, sul suo rapporto con il dio-ragno e con la fede. Personale sì, ma in grado di diventare immediatamente universale.

Ma cosa rimane oggi di Bergman? Molto. Tra le opere più emblematiche, che hanno fatto scuola e continuano tuttora a dettare il cammino per numerosi cineasti (Woody Allen ne conosce l’intera filmografia a memoria), recuperate almeno l’allegorico Il settimo sigillo, il coltissimo intreccio di flashback incastonati de Il posto delle fragole (che trovate in streaming qui su CHILI) ma anche la genialità sperimentale di Persona, l’autoprodotto ed eccezionale Sussurri e Grida, e la trilogia del silenzio: Come in uno specchio, Luci d’inverno, Il silenzio. Se per voi il cinema non è solo vedere, ma anche essere e sapere, allora riscopritelo:«Il bene e il male non esistono, ma solo le necessità, e si vive secondo le proprie esigenze…».
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