ROMA – Iconico, seducente, involontariamente pionieristico, Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme resta ad oggi senza alcun dubbio tra le opere cinematografiche più rilevanti dell’ultima decade del Ventesimo Secolo. Un autentico fenomeno sociale saputosi poi cristallizzare nell’immaginario collettivo grazie alle strepitose performance attoriali di Jodie Foster e Anthony Hopkins. La grandezza dell’opera di Demme tuttavia va ben oltre questo, è insita negli intenti post-moderni di rilettura del genere crime e dei suoi topos, lasciata trasparire dalle maglie di una narrazione la cui resa registica e costruzione d’immagine è pura rivoluzione copernicana. In buona sostanza, un’opera per cui la parola capolavoro non è mai sprecata.
Non a caso, il 30 marzo 1992, Il silenzio degli innocenti riuscì a sbancare agli Oscar contro un avversario di tutto rispetto come JFK – Un caso ancora aperto di Oliver Stone arrivando a totalizzare la formidabile cinquina: Miglior film, Miglior regia, Miglior attore protagonista, Miglior attrice protagonista, Miglior sceneggiatura. La terza pellicola in quasi un secolo di Academy ad aver raggiunto un simile traguardo dopo Accadde una notte di Frank Capra e Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman. E non solo, perché l’opera di Demme fu anche la prima nella storia di Hollywood ad aver vinto l’Oscar al miglior film dopo la finestra distributiva in Home Video. Originariamente infatti avrebbe dovuto vedere il buio della sala nell’autunno del 1990.
La Orion Pictures, tuttavia, complice il voler puntare i propri fari sulla promozione di Balla coi lupi, fece slittare l’approdo nei cinema americani de Il silenzio degli innocenti al 14 febbraio 1991 per poi trovare la via delle VHS nell’ottobre dello stesso anno. Per quando si consacrò come la terza eletta della formidabile cinquina dell’Academy, l’opera di Demme era già negli scaffali delle videoteche di tutto il mondo. Insomma, un successo unanime quello de Il silenzio degli innocenti, o quasi. All’indomani della distribuzione in sala l’intera comunità LGBT insorse criticando aspramente l’opera di Demme. Il motivo? La caratterizzazione di Buffalo Bill alias Jame Gumb (Ted Levine) come bisessuale/transessuale. Critiche a cui rispose subito Demme: «Buffalo Bill non era un personaggio gay. Era un uomo tormentato che odiava sé stesso che desiderava essere una donna perché questo lo avrebbe reso quanto di più lontano possibile da sé».
A posteriori Demme comprese come il vero motivo delle critiche fosse un altro: non c’era un personaggio gay che fosse uno che risultasse vagamente positivo in tutto Il silenzio degli innocenti. Da qui la scelta di Philadelphia come successivo progetto registico, come a voler fare ammenda nel modo migliore possibile: raccontando del dramma dell’AIDS nella comunità LGBT, al tempo nota come peste gay. E non solo, perché all’indomani del successo agli Oscar l’avvocato dei diritti delle donne Betty Friedan parlò così del trattamento filmico riservato al personaggio della Foster: «Ho sempre pensato che fosse oltraggioso. Non sto dicendo che il film non avrebbe dovuto essere mostrato. Non sto negando che fosse un trionfo artistico, ma si trattava dell’eviscerazione, della scuoiatura viva delle donne. Questo è ciò che trovo offensivo, non il paginone centrale di Playboy».
Facciamo un passo indietro. Tratto dall’omonimo romanzo del 1988 di Thomas Harris, prima ancora della sua realizzazione letteraria la Orion Pictures fece squadra con Gene Hackman per acquistare i diritti di utilizzazione economica de Il silenzio degli innocenti: 500.000 dollari equamente divisi tra i due compratori. L’accordo raggiunto tra le parti prevedeva inoltre che Hackman, oltre che come produttore, avrebbe figurato come regista del film e interprete di Jack Crawford, ruolo tuttavia a cui rinunciò in favore di Scott Glenn dopo aver ritenuto lo script di Ted Tally troppo violento. C’era un problema però. I diritti di utilizzazione del personaggio di Hannibal Lecter erano in mano a Dino De Laurentis. Il produttore italiano, quasi due anni prima con Manhunter – Frammenti di un omicidio di Michael Mann, aveva infatti trasposto in forma filmica il romanzo Red Dragon – Il delitto della terza luna.
Qui volto e corpo di Lecter sono di Brian Cox e nonostante oggi Manhunter viva di un retaggio solido che finisce con il configurarlo come il più elegante dei film di Mann, il box-office del tempo lo condannò al flop. Il risultato? De Laurentiis cedette gratuitamente i diritti d’utilizzazione del personaggio. Con Demme salito a bordo de Il silenzio degli innocenti senza nemmeno uno script definitivo, l’obiettivo della Orion era dare un volto a Clarice Starling e Hannibal Lecter. Jodie Foster si propose dopo essere rimasta affascinata dal romanzo – esattamente come accaduto con Demme per la regia – eppure, nonostante fosse fresca di Oscar alla Miglior attrice protagonista 1989 con Sotto accusa, Demme era poco convinto della scelta. Voleva Michelle Pfeiffer con cui aveva recentemente collaborato in Una vedova allegra….ma non troppo.
La Pfeiffer tuttavia rifiutò la parte non sentendosi a proprio agio in un ruolo simile. Lo stesso dicasi per Meg Ryan che parlò di dettagli raccapriccianti alla lettura dello script de Il silenzio degli innocenti come motivo del suo no. A un certo punto si fece anche il nome di Laura Dern ma la Orion la ritenne inadatta. Tornò così in corsa la Foster come, a questo punto, unica scelta possibile: la storia le diede ragione. Se quella Pfeiffer/Foster legata al ruolo di Clarice Starling è senza dubbio una delle più curiose sliding-doors di casting di sempre, con Hannibal Lecter si va ben oltre rasentando il mitologico. Le fattezze del celebre psichiatra sarebbero potute essere quelle di Derek Jacobi, Daniel Day-Lewis, Al Pacino, Robert De Niro, Dustin Hoffman e perfino di Sean Connery.
Il premio Oscar per The Untouchables – Gli intoccabili (qui per il nostro Longform) – il più vicino al ruolo di Lecter tra quelli citati – rifiutò perché proprio non riusciva a vedersi nei panni di uno psichiatra psicopatico e manipolatore. A spuntarla fu chiaramente Anthony Hopkins, scelto per via del suo ruolo empatico ne The Elephant Man. Per portare in scena Lecter – la prima ragione che ha reso grande Il silenzio degli innocenti – il brillante interprete britannico diede vita a un campionario di sfumature volte a consolidarne la dimensione caratteriale in un’insieme di caotici controsensi, ora psicologo lucido e killer a sangue freddo, ora empatico e affabile, ora psicopatico e manipolatore, ispirandosi per il timbro di voce ad HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio e per la cadenza a Katharine Hepburn e Truman Capote.
Tante le iniziative per dar sostanza e consistenza alla follia di Lecter. Nella celebre scena da cui scaturì l’iconica battuta sull’addetto del censimento ad esempio («Uno che faceva un censimento una volta tentò di interrogarmi. Mi mangiai il suo fegato con un bel piatto di fave ed un buon Chianti») Hopkins improvvisò del tutto quel sinistrissimo risucchio fatto a denti stretti: la reazione della Foster, tra l’offeso e il ferito, era autentica ed inaspettata. Il risultato è stato il dar vita a quello che per l’AFI – American Film Institute è al primo posto della 100 Heroes & Villains. Hannibal the Cannibal. Personaggio dai mille volti che ha visto lentamente propagare la propria aura narrativo-caratteriale-mitologica tra prequel, sequel e retcon dopo il successo de Il silenzio degli innocenti.
Se è vero infatti che è grazie al sopracitato Brian Cox in Manhunter che entriamo in contatto con il machiavellico Lecter, Hopkins vi diede consistenza e iconicità con i successivi Hannibal e quel Red Dragon da intendersi come rilettura di Manhunter in funzione di retcon con i precedenti temporali visto la presenza di Hopkins protagonista, in modo da creare una sorta di universo narrativo anche in termini cinematografici e non unicamente letterari. Non ultimo la saga lecteriana vide tra il giovane (e compianto) Gaspard Ulliel (Hannibal Lecter – Le origini del male) e il formidabile Mads Mikkelsen (Hannibal) volti-prequel e nuove sfaccettature dell’ormai iconico villain scenico. Oltre a Lecter e Starling, Il silenzio degli innocenti passò alla storia per la valenza simbolica offerta dal lepidottero testa di morto/Acherontia Atropos.
Particolare specie appartenente alla famiglia della falene chiamata così per via di una macchia biancastra presente sul torace dalla forma rievocante l’effige di un teschio che le fece guadagnare negli anni una triste fama riconducibile al maligno e al soprannaturale. La sua suggestiva iconicità – ispirazione eccellente di artisti come Edgar Allan Poe (La sfinge), Bram Stoker (Dracula) e José Saramago (Le intermittenze della morte) – fu sfruttata ampiamente in termini pubblicitari dal settore marketing della Orion, ma non solo, perché ne Il silenzio degli innocenti ha anche una chiara valenza narrativa. Ad ogni omicidio Bill inseriva una crisalide per una ragione ben precisa. In natura l’Acherontia Atropos, se minacciata o disturbata, emana un suono forte simile a un cigolio o allo stridio di un topo udibile sino a quaranta metri di distanza.
La scelta quindi di inserire la crisalide nella bocca delle vittime suona duplicemente semantica: rievocare l’urlo di terrore della vittima con quello della Acherontia e, al contempo, privare la vittima di una vita per poi restituirgliela, come fosse una rinascita, in una nuova forma larvale. Una delle tante ragioni del successo de Il silenzio degli innocenti per cui la stessa Pfeiffer, all’indomani della distribuzione in sala, si espresse così a proposito del suo celebre rifiuto: «Era una scelta difficile, ma divenni subito nervosa per via dell’argomento trattato». Difficile ma comprensibile per certi versi, perché l’argomento di cui tratta la Pfeiffer non sono tanto le indagini o i dettagli cruenti, quanto il sottotesto di denuncia femminista fatto emergere lungo il dispiego dell’intreccio: la ragione che spinse la Friedan a ritenere Il silenzio degli innocenti un film oltraggioso.
L’epica resa in forma filmica da Demme segue pedissequamente i canoni del cosiddetto cammino dell’ero(ina). Elemento strutturale che oltre a donare una certa linearità di parametri di sviluppo, trova arricchimento di senso nella figura della recluta Starling. Dimensione individuale di cui Demme ci dà parametri caratteriali specifici dalla carica valoriale definita: emergente, professionale, super-competente, brillante, empatica ma decisa. Ha il mondo ai suoi piedi come tutte le reclute FBI fresche di Quantico. C’è solo un problema: è una (bella) donna. Per la precisione una donna in un mondo e in una professione tipicamente da uomini. Una criticità che risulta evidente già a partire dalla semi-soggettiva nell’incipit e di cui Demme farà un uso massiccio ne Il silenzio degli innocenti, così da introdurci nella vita professionale di Clarice Starling. Punto di vista narrativo e coscienza scenica che riesce a rendere straordinario un racconto dall’intreccio altrimenti canonico e ordinario.
Al punto che la stessa indagine abilmente costruita, le svolte atte a costruire una tensione scenica densa, perfino la stessa dinamica relazionale con quel mostruoso mosaico caratteriale che corrisponde al nome di Hannibal Lecter – fatta di continue battaglie dialogiche per l’auto-affermazione – risultano puramente funzionali se rapportate al quadro d’insieme. Sono gli occhi della Starling a fare la differenza. A rendere Il silenzio degli innocenti la prima vera grande rivoluzione postmoderna del genere crime decisamente più progressista e audace rispetto a quella strutturale-narrativa del Se7en di Fincher del 1995. Gli sguardi addosso degli uomini che ne scrutano le curve, quelli di sufficienza che non la ritengono adeguata e competente solo perché una donna attraente. La seduzione implicita, gli insulti sessisti, l’autorità sminuita, perfino negata semplicemente perché donna: qui si gioca la partita ed è qui che emerge tutto il talento di Demme come regista.
Più la posta in gioco dell’intreccio si alza, più la Starling si avvicina al suo obiettivo e più i primi piani diventano esasperanti. Un impianto registico progressivamente sempre più claustrofobico con cui Demme riesce a rendere, attraverso il semplice occhio della cinepresa e la costruzione d’immagine derivata, quel dislivello valoriale di gender su cui si basa – e su cui s’è costruita – la società patriarcale che ogni donna sa dover affrontare uscendo dalla porta di casa. Per certi versi quindi, che la stessa Freidan parlasse de Il silenzio degli innocenti come di un’opera oltraggiosa ha perfettamente senso, è un oltraggio però, quello offertoci da Harris prima e Demme poi, benevolo, capace di scuotere le coscienze, oggi come ieri, trent’anni dopo.
L’errore da non fare – se così possiamo intenderlo – con Il silenzio degli innocenti e il suo sottotesto così delicato e denso, è quello di ragionare in forma univoca. Se da una parte è vero che abbiamo la continua vessazione del mondo maschile nei confronti di una donna competente e professionale come la Starling, dall’altra proprio il raggiungimento dell’obiettivo, il caso risolto, la promozione ad Agente Speciale e il «Far zittire gli agnelli», è da intendersi come un atto d’affermazione e di rivalsa nei confronti dello stesso sistema valoriale (marcio) sopracitato. Oltre il capolavoro Il silenzio degli innocenti, una lezione storica di tremenda attualità, come il solo il grande cinema sa fare in particolari circostanze.
Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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