MILANO – John Ford riesce a fondere le due fondamentali identità archetipe del cineasta: con la sua esperienza e la sua maestria, riesce infatti ad essere sia un instancabile e abile mestierante in grado di confezionare su commissione dell’industria hollywoodiana il prodotto che il mercato richiede, sia un autore di razza, di quelli che utilizzano il linguaggio cinematografico non solo per portare a casa la pagnotta, ma anche e soprattutto per dirci qualcosa sul mondo e su noi stessi in quanto appartenenti al genere umano. Ne Il massacro di Fort Apache (disponibile su Rarovideo Channel che trovate sia su Prime Video che su The Film Club), capolavoro western del 1948, questa sua peculiarità da artigiano-autore risulta particolarmente evidente.
Da un punto di vista complessivo, il film è un western classico di frontiera, originariamente in bianco e nero, fatto non solo per compiacere gli amanti di indiani e cowboy, ma consapevole di doversi rivolgere ad un pubblico più ampio, perché in quegli anni il western non è solo film di maniera, ma è anche sommo genere, per nulla di nicchia, con cui tutto il resto della produzione si deve misurare e che trascina le folle al botteghino, specie se il cognome dell’ormai maturo Ford, allora già tre volte Oscar, è in locandina. Probabilmente a questo che dobbiamo la scelta di un cast importante (i soliti Henry Fonda e John Wayne, affiancati da una ventenne Shirley Temple) e l’alternarsi cadenzato di registri anche comici e della commedia borghese, oltre ovviamente a quelli drammatici, epici e d’azione. Un western per tutta la famiglia, vien da pensare di primo acchito.
Fort Apache (da cui il titolo in originale) è una frontiera remota, un villaggio-accampamento stabile e stabilmente abitato da militari di buon cuore. Gli ufficiali hanno appartamenti in cui sono ospitate anche le loro famiglie, e in cavalleria vige un innocente cameratismo, forse con qualche affezione di troppo alla bottiglia, ma in un clima di sostanziale rispetto per i superiori e per l’altro, in cui ciascuna divisione sembra pronta a fare il proprio dovere con dedizione, quando richiesto. Un giorno, dopo un lungo viaggio, arriva al comando delle divisioni di Fort Apache l’ambizioso e inflessibile colonnello Turner (un superlativo Henry Fonda) insieme alla giovane figlia (Shirley Temple), già pronta per trovar marito. E sarà proprio la continua dialettica tra il colonnello e il capitano York (John Wayne), a dare linfa e interesse alla narrazione.
Vi suonerà certamente strano sentir dire che John Wayne, attore-feticcio di Ford e protagonista per eccellenza del western made in USA, stavolta è relegato ad un ruolo secondario, ma se questo è certamente vero considerando il suo minutaggio complessivo, alla fine de Il Massacro di Fort Apache ci si rende conto della centralità epico-narrativa di questo personaggio, e quindi anche del motivo per cui un attore così ingombrante sia stato scelto per quella piccola parte. Con il suo personaggio, Wayne rappresenta infatti plasticamente una nuova America, plasmata dalla presidenza Roosevelt e cambiata radicalmente nel suo rapporto con la Storia in seguito al suo ingresso nella Seconda Guerra Mondiale.
Al netto di alcune somiglianze nelle ambientazioni (la meravigliosa Monument Valley) e in alcuni espedienti (come il fumo che preannuncia la presenza degli indiani), rispetto a Ombre Rosse cambia ora completamente la prospettiva nei confronti della frontiera, dello straniero-nemico e dello stesso concetto di eroe: il Ringo interpretato da Wayne (allora, sì, protagonista) era l’eroe-salvatore di una comunità appesa ad un filo, in continuo e pericoloso movimento, circondata da un nemico invisibile, violento, selvaggio e incomprensibile con gli strumenti della ragione; con Il Massacro di Fort Apache, invece, la frontiera diventa un luogo sicuro in cui organizzare balli di gruppo e cene eleganti, gli spostamenti da una città all’altra non presentano grandi pericoli (l’inizio del film, da questo punto di vista, sembra un esplicito ribaltamento del viaggio della carovana di Ombre Rosse) perché la guerra è anestetizzata dagli accordi firmati con le tribù, in un atteggiamento di cordiale vicinato e reciproco riconoscimento, quando non addirittura di dialogo.
E così il colonello a caccia di glorie militari (Turner) diventa un anti-eroe, un pericoloso e anacronistico ufficiale che gioca a fare il Napoleone, ma che ha mancato l’appuntamento con la Storia e che ora, testardo com’è, mette a repentaglio se stesso e il suo battaglione pur di ottenere una targhetta con il suo nome scritto sopra. Dall’altra parte gli eroi veri, che Ford individua nel soldati comuni, in quella cavalleria capitanata dal carisma morale di York: uomini sempre a disposizione del Paese, fedeli alle gerarchie militari e sempre pronti al sacrificio. Interessantissimo il finale, che apre una questione sul ruolo delle leggende legate ai mostri sacri della storia militare (la vicenda sembra ispirata al generale Custer), e assegna la medaglia al valore ai popoli combattenti, separandoli e assolvendoli rispetto agli errori dei loro comandanti-canaglia.
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Qui sotto potete vedere il trailer del film
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