MILANO – Siamo nel 1959 e John Wayne è già oltre la cinquantina. Camicia rossa con doppia fila di bottoni bianchi, gilet scamosciato, pantaloni chiari (che nella simbologia del western classico indicano l’appartenenza ai buoni), cappello vissuto di chi ne ha viste tante e brillante stella sul cuore, a segnalarci che lui, questa volta, è lo sceriffo. Un dollaro d’onore – lo trovate in streaming su Prime Video, Apple TV e CHILI – è un film che si colloca nell’ultima fase della classicità western, una fase di transizione che mantiene saldi alcuni elementi che rappresentano la purezza del genere, aggiornati e rielaborati alla luce dei nuovi avvenimenti contemporanei: la Guerra Fredda, la parentesi buia del Maccartismo fino alla nuova (breve) fase di John Kennedy, che sarebbe stato eletto un anno dopo l’uscita del film.
Siamo lontani dai tratti grandiosi dell’epopea western di John Ford e degli Anni ’30, dal mito fondativo della società americana moderna in cui il conflitto tra l’eroe protagonista e i suoi nemici era giocato nelle categorie del confine, della civiltà contro lo stato-di-natura (gli indiani). Saggio, austero e burbero nella condotta, dall’inflessibile e benevola moralità – seppur con i suoi modi grevi-, lo sceriffo John Chance (John Wayne) vive in una società strutturata ma da consolidare, in cui non è più l’impeto della conquista a dettare l’agenda, quanto piuttosto il mantenimento dell’ordine, messo in pericolo dai gaglioffi che si aggirano per la città al soldo del latifondista Burdette (John Russel).
Howard Hawks sceglie John Wayne (con cui aveva già lavorato in Il fiume rosso, undici anni prima) come simbolo di questo cambio di prospettiva, ma la faccenda si fa più esplicita proprio attraverso le parole dello sceriffo quando, interrogato dalla bella Feathers (Angie Dickinson) sul perché avesse scelto quel mestiere, risponde sornione: «Per pigrizia: uno si stufa di lavorare per padroni diversi e comincia a farlo per la legge». In realtà, per noi che non cediamo al suo fascino distaccato, è solo la nuova forma della sua lotta per la civiltà, che lo vede più pacato a causa dell’età e della staticità del ruolo, non per questo però meno combattivo e determinato.
A ben vedere, c’è un aspetto fondamentale in Un dollaro d’onore che rende il protagonista una figura tragica (nel senso tecnico del termine), sempre in contrapposizione con le figure di stampo epico dei western precedenti; lo sceriffo infatti, pur restando un abile calcolatore in ogni sua mossa, non ha il polso della situazione, solo in parte può gestirla, trovandosi in balia del caso, della contingenza, di un equilibrio di forze tra bene e male che può volgere in favore dei buoni solo a determinate condizioni, che certo non dipendono da lui. Ed ecco in scena gli altri personaggi, i cittadini da portare dalla parte giusta, non tramite ricompense in denaro o promesse di grandezza, ma con la persuasione della morale, dell’agire per un bene comune.
In questo contesto è fondamentale la figura di Dude (un grandissimo Dean Martin), meglio conosciuto come El Borachon, ex-pistolero assennato diventato schiavo del whiskey per amore e sulla cui redenzione lo sceriffo ha (paternamente) scommesso. Ed è proprio Dude la vera chiave di volta della faccenda, il vero eroe contemporaneo, perché è solo con la sua piena riabilitazione che l’impossibile può diventare possibile. Ma anche questo non basta, perché se si vuol far trionfare l’ordine in un mondo in cui ancora governa la legge del più forte, c’è bisogno dell’apporto di tutti, serve che ciascuno si schieri (come nell’evangelico «o con me o contro di me» rievocato da più parti). Questo è il momento in cui in Un dollaro d’onore tutti diventano eroi, ciascuno a modo suo: qualcuno, (forse) per amore, altri per amicizia, come il vecchio trombone Stumpy (Walter Brennan), altri ancora per un misto di rancore, paga e arrivismo, come nel caso di Colorado (Ricky Nelson).
Hawks, al netto di tutto questo, presenta un racconto dilatato nei tempi, ragionato, in cui ogni singolo dialogo ed ogni scena sono funzionali all’intreccio, con una geometria rigorosa che non lascia spazio al caso, per un western che è tutto di interni (dimenticatevi i campi lunghi e le diligenze di John Ford), dialoghi e relazioni, con poca vera azione (salvo la sparatoria finale), che lascia lo spazio ad un’ansia crescente, mostrando una vita, quella di Chance, in cui continua a non esserci spazio per ozio o tranquillità, salvo che per qualche freddura disillusa e alcuni siparietti divertenti tra il protagonista e i suoi aiutanti: «E non credere di essere un individuo tutto speciale. Non li hai inventati tu gli incubi». Capolavoro.
- LONGFORM | Un dollaro d’onore, sessantacinque anni dopo
- AUDIO | Qui un brano della colonna sonora di Dimitri Tiomkin:
Lascia un Commento