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Harakiri | La storia del Giappone, Masaki Kobayashi e un capolavoro dimenticato

Il film del 1962? Un cult che racconta il conflitto tra individuo e società. Ma non solo…

Tatsuya Nakadai in una scena di Harakiri.
Tatsuya Nakadai in una scena di Harakiri.

ROMA – Nel Dopoguerra giapponese, epoca in cui i registi sfidarono apertamente la sterilità delle istituzioni e il loro essere rimaste legate al passato feudale della nazione, emerse prepotentemente la visione registica di quel Masaki Kobayashi che – da The Thick-Walled Room del 1956 agli anni ottanta di Tokyo Trial e The Empty Table – ha sempre saputo porre l’accento sul rapporto tra individuo e società e il confronto con la tradizione e l’autorità, sia feudale che contemporanea. Per dirla con le sue parole: «In qualsiasi epoca sono critico nei confronti del potere. Ne La condizione umana prese la forma del potere militarista, in Harakiri era il feudalesimo. Entrambi i film ponevano lo stesso conflitto morale in termini di lotta dell’individuo contro la società…». Oggi su Longform parleremo di Harakiri – film quasi dimenticato e introvabile in streaming – ma prima è bene fare un piccolo passo indietro.

Harakiri: tra jidai-geki e gendai-geki
Harakiri: tra jidai-geki e gendai-geki

Come altri registi di quel periodo – in particolare Akira Kurosawa – Kobayashi seppe esprimere il proprio dissenso politico attraverso il jidai-geki (o period drama) in cui il passato diventa un surrogato del Giappone moderno rivelandone le radici dell’ingiustizia contemporanea, trovando in Harakiri – presentato a Tokyo il 16 settembre 1962 – il suo impareggiabile apogeo artistico. Questo per via della storia al centro del racconto. Il clan Iyi di Harakiri produsse infatti una delle figure più importanti e controverse della storia moderna giapponese: Ii Naosuke, tairo/reggente dello shogunato Tokugawa (1850-1860) noto per aver firmato il Trattato di Harris (o Trattato di amicizia e commercio nippo-americano) che nel luglio 1858 garantì agli Stati Uniti l’apertura dei porti di Kanagawa e di altre quattro città, oltre che l’extraterritorialità ai cittadini stranieri.

Kobayashi e la condanna al clan Iyi

Ecco, nello sferrare un attacco totale alle azioni del clan Iyi, Kobayashi compì un autentico atto politico sovversivo rifiutando l’idea della sottomissione dell’individuo al gruppo/società condannando – attraverso la strenua opposizione all’idealizzazione del sistema feudale giapponese e al (presunto) sistema d’onore dei samurai – le strutture gerarchiche delle post-feudatarie corporazioni note come Zaibatsu che, negli anni Cinquanta-Sessanta, si diffusero a macchia d’olio nella vita politica e sociale giapponese (accusate in precedenza da Kurosawa nel formidabile gendai-jeki in salsa neo-noir, I cattivi dormono in pace del 1960). Intenti artistici gloriosi cuciti addosso alla dimensione caratteriale del rōnin Hanshiro Tsugumo (uno straordinario Tatsuya Nakadai) che, nell’esercizio del seppuku (l’altro nome per harakiri, ovvero, suicidio rituale) in un ambiente punitivo e ipocrita, rischia tutto prendendo posizione contro la corruzione e il male della società.

Tatsuya Nakadai e Kei Satô in una scena di Harakiri
Tatsuya Nakadai e Kei Satô

Nel mezzo c’è tutto il mestiere di Kobayashi, i silenzi di casa Iyi, la ricercatezza registica nel sottolineare tramite manovre avvolgenti i momenti di massima tensione e dramma, ma soprattutto l’impianto narrativo di Harakiri, caratterizzato da un lunghissimo rapporto dialogico inframezzato da delicate digressioni temporali che finiscono con il far emergere i più fragili ed eterni sentimenti umani di una contemporaneità vestita da argomento storico. Un’opera di straordinaria unicità la cui singolare e impareggiabile ratio filmica ne ha saputo garantire contorni di difficile identificazione. A detta dello stesso Kobayashi infatti è (quasi) riduttivo etichettare Harakiri come semplice jidai-geki: «Per me non lo è. È un gendai-jeki, un soggetto direttamente contemporaneo».

«In qualsiasi epoca sono critico nei confronti del potere: in Harakiri era il feudalesimo»

«Ogni epoca, la nostra come quella dei samurai, ha prodotto capi autoritari del tipo di quello contro il quale lotta il nostro rōnin: attraverso il passato è del presente che si vuol parlare». Sorprendente? Nemmeno più di tanto. Attraverso Harakiri Kobayashi mise a nudo la fragilità e la caducità di ogni potere autoritario giocando con l’ironia della finitezza del periodo Tokugawa. I daimyo feudali si comportavano infatti come se il loro potere potesse essere eterno, ma il pubblico contemporaneo – a conoscenza del destino riservatogli dalla storia – sapeva bene come penetrare la loro arroganza attraverso la consapevolezza che si, i Tokugawa (di ieri, le Zaibatsu/corporazioni di oggi) sarebbero stati sconfitti e si, il feudalesimo sarebbe caduto, di lì a poco, con la restaurazione compiuta dall’imperatore Meiji nel 1868.

Tatsuya Nakadai è il rōnin Hanshiro Tsugumo

Non ci volle molto prima che il mondo si accorse della valenza di Harakiri. In particolare al Festival di Cannes dove, nel 1963, nell’edizione che vide Il Gattopardo trionfare portando a casa la Palma d’Oro e nientemeno che due capolavori come 8 e ½ di Fellini e Gli uccelli di Hitchcock presentati fuori concorso, a rubare la scena fu proprio l’Harakiri di Kobayashi insignito – ex-aequo con Un giorno, un gatto del ceco Vojtěch Jasný – del Premio speciale della giuria, come a sottolinearne l’originalità e lo spirito di ricerca. Grande merito del retaggio sessantennale inscalfibile lo si deve alla performance di Nakadai che seppe incarnare, meglio di chiunque altro, l’individualismo e la cultura giovanile del Dopoguerra giapponese attraverso una voce forte e profonda, mimica essenziale ed emozioni sentite.

«Se sul letto di morte qualcuno mi chiedesse quale penso sia stato il mio film migliore penso che direi proprio Harakiri»
«Il mio film migliore? Penso sia proprio Harakiri».

Dalla sua l’interprete si è sempre mostrato orgoglioso del lavoro compiuto con Harakiri, arrivando a dire come: «Se sul letto di morte qualcuno mi chiedesse quale penso sia stato il mio film migliore penso che direi proprio Harakiri», su oltre cento pellicole a cui ha preso parte. Tra queste citiamo La condizione umana e L’ultimo samurai – entrambe dirette proprio da Kobayashi – ,The Sword of Doom di Kinachi Okamoto, nonché tre pellicole simbolo del cinema giapponese a firma Kurosawa: Yojimbo/La sfida del samurai – ispirazione eccellente del leoniano Per un pugno di dollari (di cui potete leggere qui), Kagemusha – L’ombra del guerriero e, non ultimo, l’immortale Ran, con cui il maestro Kurosawa salutò per sempre il jidai-geki con un kolossal d’autore destinato di diritto alle memorie del tempo, ma quella, si sa, è un’altra grande storia del nostro amato cinema.

Qui sotto potete vedere il trailer del film: 

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