MILANO – Come si vede in Taipei Story, Taiwan viene spesso chiamata l’isola che non c’è perché si affaccia sull’immensa Cina meridionale e la sua travagliata storia l’ha trasformata in un luogo senza una chiara identità. Dopo essere stata colonizzata e dominata dall’Europa imperialista nel diciassettesimo secolo, Taiwan viene contesa tra Gina, Stati Uniti d’America e Giappone fino al 1971, dove perde il seggio alle Nazioni Unite e viene isolata dal resto del mondo. Inizia così un periodo dove il paese prende coscienza di sé e la democrazia trova lo spazio per germogliare, dove l’industrializzazione urbana e sociale permette al paese di trasformarsi in uno stato autonomo e indipendente. Un’evoluzione repentina che ha però costretto Taiwan a costruirsi su fondamenta non sue, ma su culture, usi, costumi e lingue di altri stati.
Una crescita eterogenea e particolare che è stata raccontata e analizzata dal cinema del periodo, chiamato poi New Taiwan Cinema Movement e ispirato soprattutto a quello di Hong Kong e al neorealismo europeo. I due cineasti più importanti e acclamati sono Edward Yang e Hou Hsiao-hsien, che ha partire dagli anni Ottanta e con due stili molto diversi hanno seguito, criticato, destrutturato e fatto emergere la complessità del loro paese. Uno dei primi film manifesto di questo movimento artistico è proprio Taipei Story (uno dei pochi disponibili in streaming su Rai Play), uscito nel 1985, che vede Edward Yang dietro la macchina da presa, Hou Hsiao-hsien davanti alla cinepresa nei panni del protagonista e la sceneggiatura scritta da entrambi che sancisce la loro unica collaborazione prima di prendere due strade artistiche diverse, ma entrambi destinate a cambiare e influenzare il cinema asiatico.
Chin è una donna in carriera, è l’assistente personale di una delle donne più importanti di Taipei ed è fidanzata con Lung, ex campione di baseball che lavora in un negozio di seta e si reca spesso nella lontana America per registrare le partite di MLB e aiutare la squadra giovanile della città. Lei mette sempre gli occhiali da sole, lui un cappellino dei New York Yankees e il loro rapporto è un disastro, non si guardano, non si parlano e non sembrano amarsi, lui quando torna dall’occidente fa scalo a Tokyo per incontrare Gwen, un amore passato e mai dimenticato, mentre lei dopo il lavoro esce spesso con un collega sentendosi in colpa per essere così confusa e indecisa. Chin e Lung sono due anime lontane, se lui è attaccato alla tradizione e si ostina ad aiutare economicamente il genero, un uomo viscido e violento, lei cerca disperatamente la serenità in un futuro incerto e torbido, immerso in una città sempre più nuova e in costante cambiamento.
Un rapporto sentimentale già incrinato che si rompe definitivamente quando lei si licenzia e insieme decidono di trasferirsi in America, ma Lung perde tutti i soldi destinati alla partenza e il loro sogno americano viene compromesso. I due litigano e si separano, ritrovandosi così da soli ad affrontare ciò che hanno lasciato indietro e soprattutto ciò che la vita gli riserverà in una realtà che sentono sempre più lontana, diversa da come l’avevano sognata. Chin e Lung dovranno trovare il coraggio di guardarsi dentro, capire i propri errori e ammetterli davanti all’altro mentre però tutto quello che li circonda li spinge verso uno stato di sofferenza e immobilismo. Una donna che non mostra i suoi bellissimi occhi, specchio di un disagio doloroso e silenzioso, un uomo che vive nel passato con l’America sulla testa e un’altra donna nel cuore, un rapporto che si regge sui silenzi, sul non guardarsi, sul non parlarsi, perché altrimenti tutto crollerebbe.
Edward Yang inserisce questa dinamica amorosa in un contesto sociale e urbano ancora più complesso e problematico; infatti, la vera protagonista di Taipei Story è proprio la città e la sua evoluzione. Il regista inquadra e mostra costantemente una Taipei sempre più urbanizzata, con infiniti grattacieli uguali che sorgono dalle ceneri di una natura sacrificata in nome di un cambiamento necessario, ma che secondo l’idea di Edward Yang non è altro che un’evoluzione ipocrita, spinta non da un volere comune, ma dall’inesorabile ricerca di essere al passo con una storia che non è quella di Taiwan. America, Giappone e Cina sono luoghi visti e raccontati come un paradiso lontano e irraggiungibile, gli unici punti di vista conosciuti perché al paese non è stato permesso di svilupparne uno proprio e quindi si cerca di raggiungere una realtà che non è la loro, portando così il paese ad un’omologazione che non fa altro che spegnere la città.
Taipei Story è una perfetta fotografia della Taiwan libera dopo secoli di passività, degli anni Ottanta che l’hanno trasformata radicalmente in qualcosa che secondo Edward Yang ha portato alla creazione di un contesto sociale e culturale senza una chiara identità. Un contesto sfaccettato e complesso in cui il regista inserisce e approfondisce due personaggi altrettanto problematici e difettosi. Chin e Lung sono poli opposti, diversi in ogni aspetto, ma vivere in una realtà così problematica li rende entrambi figure immobili, incapaci di comunicare e di evadere quando si presenta l’opportunità, perché secondo Yang è impossibile scappare da una città che insegue ideali lontani senza mai raggiungerli. Il messaggio di Yang arriva forte e chiaro, con un film che si ispira ad Antonioni e che riesce a trasmettere benissimo il senso di smarrimento e desolazione provato di fronte ad una città sempre più moderna fuori e vuota dentro, che ha nascosto l’anima delle persone dietro i suoi immensi palazzi rendendoli così incapaci di comunicare e di vivere.
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