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Ran | Tatsuya Nakadai, il caos assoluto e la sinfonia di morte di Akira Kurosawa

Shakespeare, il Giappone medievale, il Re Lear e la paura atomica. Riscoprire una leggenda

Tatsuya Nakadai nel ruolo di Hidetora Ichimonji in Ran, un film di Akira Kurosawa del 1985
Tatsuya Nakadai nel ruolo di Hidetora Ichimonji in Ran, un film di Akira Kurosawa del 1985

ROMA – Nel 1957 un Akira Kurosawa all’apice della popolarità scaturita dal suo capolavoro, I sette samurai, realizzò Il trono di sangue. Libero adattamento del dramma shakespeariano Macbeth ambientato nel Giappone medievale che confermò la bontà degli intenti artistici e creativi del suo autore. Con Il trono di sangue infatti Kurosawa dimostrò – come già fatto tra Rashomon e il sopracitato I sette samurai – di poter declinare a suo piacimento il jidai-geki e le inerzie della sua grammatica filmica secondo molteplici sfumature lanciandolo così verso una dimensione altra, inedita, dichiaratamente elitaria. Poco meno di trent’anni dopo il gioco si ripete. Sullo sfondo, il Re Lear shakespeariano ed è la volta di Ran, manco a dirlo, un’altra opera da leggenda. A cambiare, però, era la percezione, sia che il mondo aveva di Kurosawa che dell’inerzia dell’adattamento.

Ran di Akira Kurosawa fu presentato a Tokyo il 25 maggio 1985
Ran di Akira Kurosawa fu presentato a Tokyo il 25 maggio 1985

Certo, la rinascita artistica tra l’Oscar 1976 al Miglior film straniero per Dersu Uzala e la Palma d’Oro ex-aequo con All That Jazz al Festival di Cannes 1980 per Kagemusha. Ma dal flop di Dodes, al licenziamento da Tora! Tora! Tora! (e tentato suicidio per il disonore), soprattutto in patria, Kurosawa non aveva più l’appeal dei tempi d’oro. In questo terreno accidentato e umanamente critico prende forma Ran (in streaming su Apple Tv+) il cui respiro tragico vive di una simbiosi allegorica tra il nichilismo che attanagliava l’esistenza di un Kurosawa al crepuscolo della carriera e la vita del daimyo giapponese del periodo Sengoku, Mōri Motonari (1497-1571) famoso per le sue gesta e la fedeltà dei suoi tre figli. A quel punto, immaginò cosa sarebbe stato del daimyo se i figli si fossero rivelati malvagi e bramosi di potere proprio come nel caso dei destini avversi del Re Lear.

Un estratto della locandina ufficiale di Ran
Un estratto della locandina ufficiale di Ran

Una fusione di anime artistiche, quella tra Motonari e Lear, naturale, mai del tutto spiegata e capita da Kurosawa quando nel 1975 buttò giù lo script di Ran all’indomani della rinascita artistica di Dersu Uzala. E quindi Hidetora Ichimonjii (Tatsuya Nakadai), daimyo giunto al tratto finale di una vita fatta di conquiste e saccheggi, con un unico desiderio: dividere il regno tra i tre figli così da renderlo più forte, saldo e vasto tra i principi-eredi Taro (Akira Terao), Jiro (Jinpachi Nezu) e Saburo (Daisuke Ryu) corrispondenti alle ingrate shakespeariane Goneril, Regan e Cordelia. Tuttavia, nonostante le premesse benevoli, accolgono con perplessità la scelta del padre temendo che la mossa li possa rendere deboli. Quella che sarebbe dovuta essere una fase di transizione – e successivamente di consolidamento – del potere degli Ichimonji sarà l’inizio della fine, ma per Hidetora le sorprese sono tutt’altro che finite.

Tatsuya Nakadai nella scena madre del film
Tatsuya Nakadai nella scena madre del film

Caos, rivolta, disturbo, confusione. Sta a indicare questo, nella lingua giapponese, la parola Ran. Il caos dell’animo, dei sensi, la rivolta degli uomini. In un’intervista rilasciata nei primi anni Duemila Kurosawa diede un’interessante chiave di lettura dell’insito caos dell’opera omonima. Sosteneva, infatti, come fosse riconducibile alla tristezza degli esseri superiori, incapaci – perfino impotenti – di influenzare il libero arbitro di uomini spinti da cupidigia sfrenata. Un’interpretazione che, se da un lato getta più di un’ombra oscura sulle intenzioni allegoriche della cornice shakespeariana di una narrazione kolossale e frastagliata, dall’altro non fa che arricchirne la ratio filmica. Scorie e ansie dell’era post-Hiroshima in Ran, avvolte attorno all’archibugio: l’atomica del periodo Sengoku, simulacro senza tempo del rapporto tra tecnologia e il desiderio di sopraffazione e morte. Ran è anche però la dimensione intima del caos fatta emergere in una messa in scena monumentale e dalla cura scenografica meticolosa.

Mieko Harada in un momento del film
Mieko Harada in un momento di Ran

Il crollo dell’intera scala di valori di Hidetora, tanto Motonari nell’effige e nei caratteri quanto Lear nello sviluppo, esplicitata registicamente con il progressivo peggioramento delle condizioni climatiche tra panoramiche e campi lunghi. È una discesa negli inferi tra scenari color pastello quella di Hidetora. Agente scenico dalla caratterizzazione imperiosa e decadente, in bilico tra storia e letteratura, reso grande da un formidabile Nakadai in progressiva sottrazione recitativa. A ogni colpo infertogli nell’animo dai figli ingrati, il corpo di Hidetora si affievolisce. Privato dall’amore figliare, Hidetora vede accentuare il contorno di occhi svuotati e resi color cenere, sino a spegnersi divenendo del tutto imperturbabile, catatonico, inerte. Una sinfonia di morte, Ran, e per Kurosawa il progetto a cui teneva di più nell’ultimo scorcio di carriera al punto da concepire lo stesso (gigantesco) Kagemusha semplicemente come: «Una prova generale per Ran».

Nei cinema italiani il film di Kurosawa fu distribuito il 7 marzo 1986
Nei cinema italiani il film di Kurosawa fu distribuito il 7 marzo 1986

Nel mezzo, un calvario produttivo decennale di storyboard disegnati a mano, la ricerca di finanziamenti che trovò, infine, nell’executive Serge Silberman, un accanito sostenitore e le dichiarazioni rilasciate dallo stesso Kurosawa che ne fanno intuire la portata autobiografica e distruttiva: «Ciò che stavo cercando di ottenere con Ran, e questo era lì fin dalla fase di sceneggiatura, era che gli dei o Dio o chiunque stia osservando gli eventi umani prova tristezza per il modo in cui gli esseri umani si distruggono a vicenda e per l’impotenza di influenzare l’agire degli esseri umani. Hidetora sono io». Il resto è storia. Oscar nel 1986 ai Migliori costumi a fronte di quattro nomination (tra cui miglior regia). Il jidai-geki moderno definitivo: pura estasi cinematografica.

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