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Federica Di Giacomo: «Il Palazzo, il mio cinema e la bellezza astratta dell’incompiutezza»

E ancora l’arte incompiuta dei suoi protagonisti, le donne alla regia e il cinema del reale

federica di giacomo

CARBONIA – È stato presentato con un evento speciale alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia. Il palazzo di Federica Di Giacomo è un documentario immerso in una realtà fuori dal mondo, un gruppo di artisti e un mentore, Mauro Fagioli, che vivono della propria arte fine a sé stessa, senza un confronto con la realtà. Lui è l’autore di un grande film rimasto incompiuto a cui tutti però hanno preso parte, migliaia di ore di lavoro che, dopo la sua scomparsa, ricevono in eredità. Coloro che avevano vissuto con lui si ritrovano allora per commemorarlo, in un viaggio tra realtà, finizione e analisi di sé stessi. Abbiamo incontrato Federica Di Giacomo al Carbonia Film Festival dove, tra una masterclass e una presentazione del film, ci ha raccontato non solo l’idea dietro il suo documentario, ma anche la rinascita del cinema del reale, i cambiamenti nel mondo cinematografico per le donne registe e la passione per il mondo documentaristico russo.

federica di giacomo
Una scena de Il palazzo di Federica di Giacomo

IL PALAZZO – «L’idea in realtà è nata molti anni fa, quando io entrai a far parte di questo gruppo perché avevano bisogno di un’operatrice video. Già da subito mi sembrò una realtà assolutamente unica e completamente isolata dalla realtà, piena di visioni, di utopia, di un modo di vivere abbastanza particolare. Poi ci sono voluti molti anni per arrivare al momento giusto, che è coinciso con il momento in cui il proprietario del palazzo ha proposto al regista di questo grande film incompiuto di portarlo finalmente a termine. A quel punto io e il mio co-autore, che era anche lui un abitante del palazzo, abbiamo pensato che era l’aggancio giusto per ripercorrere all’indietro la storia del palazzo. Poi la realtà si è frammista al cinema e la sua scomparsa ci ha portato a fare un tipo di film diverso, spostato su questo gruppo di amici che dopo la sua morte riceve in eredità questo film incompiuto.»

ARTE INCOMPIUTA – «A me piaceva molto l’idea di un tipo di processo creativo che non aveva assolutamente contatto con la realtà e quindi non aveva neanche quei condizionamenti psichici e materiali che la realtà ti dà. Tutto avveniva in modo completamente libero lì dentro, anticonformista. Se vuoi, noi siamo qui appunto a Carbonia, dove abbiamo visto le miniere, veniamo a contatto con quello che era il lavoro più duro per un essere umano… e certo questo concetto può anche essere visto come qualcosa di assolutamente elitario. In realtà lo spirito che si respirava lì dentro era anche un’idea di libertà che aveva proprio a che fare con la non necessità di concludere le cose, di esporsi al giudizio altrui. Noi abbiamo visto alcuni film prima di giare come quello di Orson Welles, ad esempio, ma anche La terrazza di Scola, che ci ha ispirato molto sul fatto che a un certo punto un confronto con la realtà c’è. Quindi l’incompiuto ha un tipo di valore che poi però, nel confronto con la realtà, bisogna vedere se e chi lo regge. Chi veramente riesce a vivere fino in fondo in quel modo. Quindi c’erano tutta una serie di strati e di senso dentro la questione dell’incompiuto, sia a livello esistenziale sia a livello artistico, che erano molto interessanti.»

ALBERTO ARBASINO – «Sono molto lusingata dal paragone. Secondo me quello che ha ricordato Arbasino è una critica, un livello di ragionamento su quello che siamo diventati come società e come generazione che fa parte di questa società. Il fatto che il film comunque faccia vedere anche il lato negativo o il lato dolente del mondo dello spettacolo, del cinema, di una generazione che alla fine si è un po’ persa, si è un po’ addormentata, lo fa forse avvicinare ad alcuni libri di Arbasino che fanno un ritratto della società anche ironico e dolente, ma sempre graffiante.»

DONNE & REGIA – «Io la vedo in modo diverso a seconda del livello di cui si parla. Per esempio, quando io faccio un documentario, e lo faccio molto spesso con una troupe tutta al femminile, noi raramente abbiamo problemi. Anche negli strati più bassi della società o a volte più pericolosi non abbiamo mai avuto problemi. Nel momento in cui le persone capiscono lo spirito e la serietà del progetto c’è un certo rispetto anche verso la donna che compie questa cosa e non c’è sopruso di potere. I problemi diventano molto più grossi quando si sale nella gerarchia della produzione e si arriva invece a chi ci deve dare i finanziamenti, a chi deve credere nei progetti, a chi ci deve portare ai festival. Allora lì invece secondo me la realtà è ancora molto lontana dall’essere paritaria. La considerazione che ha un progetto portato avanti da un uomo, soprattutto nella società italiana, è comunque ancora visto in modo diverso. Questo è un fatto.»

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Il palazzo di Federica Di Giacomo

CINEMA DEL REALE – «A dire il vero la stagione d’oro del documentario è iniziata già all’inizio del 2000. Quando io sono arrivata in Italia dalla Spagna c’erano già un grande fervore e un grande movimento su questo genere. Poi piano piano il cinema del reale si è rivelato molto forte anche nei festival internazionali e questo ha prodotto una specie di ritorno che ha convinto alcuni produttori a scommettere di più sul cinema del reale, che poi è un contenitore in cui ci sono tantissimi modi di fare cinema. Questo è il bello. Sono film spesso ibridi in cui si gioca con i limiti. Tra l’altro sembra una cosa che succede ora, ma in realtà si giocava con i limiti già nel ’22 con Flaherty. C’è sempre stata questa grande libertà di linguaggio e la possibilità di declinare un film in tanti modi. In epoca comunista si parlava di quota leninista del cinema, che era quella quota di cinema di non fiction che doveva contrastare il cinema di finzione considerato borghese, mentre il documentario era considerato quello libero. Secondo me, è qualcosa che dovrebbe rimanere anche nel cinema contemporaneo, perché in un mondo in cui siamo sommersi di immagini e dobbiamo compiere delle scelte, il documentario e tutto il cinema del reale spingono ad avere molto più un senso critico.»

REGISTI PREFERITI – «I primi registi a cui mi sono ispirata nel documentario sono stati sicuramente Wiseman, Kossakovsky, diciamo tutto il movimento documentarista russo. Ultimamente mi piace moltissimo Oppenheimer, ma anche molti documentaristi italiani. In Italia c’è un’eccellenza in questo campo.»

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