ROMA – Il 7 marzo 1999, sei giorni dopo aver presentato Eyes Wide Shut in una copia provvisoria destinata alla sola visione della famiglia e delle star del film, Stanley Kubrick si spense nel suo letto, pacificamente, durante la notte, all’età di settant’anni. Le esequie si tennero cinque giorni dopo, a Childwickbury Manor, alla presenza di amici intimi e familiari. Non lo vide mai finito, Eyes Wide Shut, che al cinema arrivò diversi mesi dopo, il 16 luglio, con Warner Bros. Pictures e che della filmografia del Maestro rappresenta un triplo primato. Con i suoi 162 milioni di dollari d’incasso world-wide, fu il suo più grande risultato al botteghino. I suoi quattrocento giorni continuativi di riprese fecero entrare la mitologica lavorazione nel Guinness dei Primati, ma c’è di più di questo. Si tratta, infatti, del progetto più agognato e rincorso da Kubrick.

Ci sono voluti ventotto anni prima che Eyes Wide Shut vedesse la luce. Precisamente dall’aprile 1971 in cui l’allora head-of-chief della Warner, John Calley, ne annunciò la realizzazione con Kubrick che si sarebbe impegnato nell’adattamento del racconto Doppio Sogno (Traumnovelle in v.o.) di Arthur Schnitzler del 1926. Opera di cui Kubrick – pensate – ottenne con l’aiuto del giornalista Jay Cocks i diritti di utilizzazione economica nel 1968 dopo che ne venne a conoscenza durante una sessione di “terapia di coppia” con Kirk Douglas durante l’altrettanto difficile lavorazione di Spartacus. Oltre quarant’anni di sogni (letteralmente!) e suggestioni in cui il concept del film assunse varie forme. In origine Eyes Wide Shut sarebbe dovuto essere il progetto successivo a 2001: Odissea nello Spazio di cui immaginò le sue prime forme narrative come una commedia sexy dalle venature cupe e selvagge con Woody Allen come protagonista.

Non se ne fece nulla, con Kubrick che rivolse le sue attenzioni verso Arancia Meccanica prima e Barry Lyndon poi – e nel mezzo almeno una decina di altri progetti accarezzati e mai realizzati tra cui lo storico Napoleon – e il protagonista che nei successivi dieci anni, da Allen, fu immaginato da Kubrick con il volto, il corpo e la verve comica di Steve Martin di cui si innamorò artisticamente dopo che nel 1979 rimase estasiato dalla visione di Lo Straccione. Irriverente capolavoro comico di Carl Reiner su lotta di classe, privilegi e divario sociale. Anche qui, un nulla di fatto. Arrivarono Shining, Full Metal Jacket, ma soprattutto il mitologico (mancato) Aryan Papers che Kubrick rincorse per diciotto anni – con tanto di pre-produzione annunciata e avviata e cast scelto – per poi essere bruscamente interrotta dal Maestro alla visione del similare Schindler’s List.

Un altro sogno filmico mancato che spinse Kubrick a guardarsi indietro e tornare sui suoi passi. Era impossibile resistere al richiamo di Doppio Sogno e della Vienna dei primi anni del XX° secolo. Con loro, il tormento borghese di Fridolin e Albertina tra società segrete, orge carnevalesche, sentimenti antisemiti e riflessioni allo stato puro sul desiderio, fatti rivivere nella New York degli anni Novanta attraverso i simulacri caratteriali di Bill e Alice Harford. Un cognome tutt’altro che casuale quello scelto da Kubrick. Un’allusione, piuttosto, verso il tipo di attore che avrebbe voluto come interprete di Bill. Quell’Harrison Ford che avrebbe permesso ad Eyes Wide Shut il giusto equilibrio scenico tra il tono comico nelle prime fasi del processo creativo al dramma esistenziale non privo di sfumature brillanti. Non arrivò mai Ford, ma fu su quel tipo caratteriale e su quel tono che Kubrick settò l’adattamento assieme a Frederic Raphael.

Nemmeno un anno dopo – siamo nel 1995 – l’allora Presidente della Warner, Terry Semel, diede il via libera alla pre-produzione in via ufficiale chiedendo a Kubrick di ingaggiare dei volti riconoscibili per i ruoli da protagonisti, delle vere stelle del firmamento hollywoodiano. «Non hai fatto una cosa del genere dai tempi di Shining con Jack Nicholson» gli fece notare Semel, ovvero dal film precedente a Full Metal Jacket con protagonisti i giovanissimi Matthew Modine, Vincent D’Onofrio, Adam Baldwin e il veterano R. Lee Ermey che nonostante l’assenza di volti noti portò comunque 120 milioni di dollari nelle casse della Warner a fronte di un budget di poco più di 16 milioni. Da qui l’intuizione di puntare, si, su attori di peso, ma anche su coppie dentro-e-fuori lo schermo in modo che l’alchimia non potesse essere tradita in alcun modo.

In un primo momento fu presa in considerazione l’idea di ingaggiare Alec Baldwin e Kim Basinger, poi arrivò la suggestione che rese chiaro tutto. Perché in quello stesso periodo, Nicole Kidman era in Inghilterra impegnata nella lavorazione di Ritratto di Signora di Jane Campion. Con lei c’era anche Tom Cruise. Invitati da Kubrick a visitare Childwickbury Manor, non ci volle molto prima che i due divennero i volti-e-corpi dei coniugi Harford. Con loro, inizialmente, Harvey Keitel e Jennifer Jason Leigh come Victor Ziegler e Marion Nathanson che a causa degli estenuanti ritmi di regia di Kubrick abbandonarono anzitempo Eyes Wide Shut per conflitti di lavorazione (rispettivamente Alla ricerca di Graceland ed eXistenZ). Al loro posto Sydney Pollack e Marie Richardson che sopperirono alle assenze e che, più semplicemente, resistettero. Fu una lavorazione estenuante quella di Eyes Wide Shut.

Per capirci, quando furono annunciati Cruise e Kidman come protagonisti del film, D’Onofrio diede loro un consiglio amichevole: «Affittate una casa, un appartamento, perché ci resterete un bel po’ in Inghilterra». Ci stettero talmente che i loro due figli adottivi, Bella e Connor, assorbirono l’accento inglese. Iniziate le riprese nel novembre 1996, il perfezionismo portò Kubrick a riscrivere lo script in corso d’opera e a girare intenzionalmente alcune sequenze più e più e più volte (ci vollero 200 ciak per portare a casa la scena pre-climatica del biliardo tra Bill e Victor) in modo da scomporre i suoi agenti scenici, far abbracciare loro il nuovo lato caratteriale, così da renderli più autentici e vivi. La natura implacabile della produzione portò presto la troupe all’esaurimento e il cast con il morale sotto i tacchi. Cruise sviluppò un’ulcera lancinante per tutto lo stress somatizzato, ma lo rivelò poi, a lavorazione conclusa.

Data l’arcinota paura di volare del Maestro, nonostante l’ambientazione newyorchese l’intero film fu girato in Inghilterra con il Greenwich Village ricostruito nei teatri di posa dei Pinewood Studios di Londra. E se credete per un attimo che questo possa aver frenato il tipico perfezionismo dell’autore, sappiate che Kubrick inviò degli operai a Manhattan per misurare l’esatta larghezza delle strade tra battistrada e marciapiede e per annotare le posizioni esatte dei distributori automatici di giornali. Furono, inoltre, girati anche degli sfondi di New York da proiettare come fondale urbano dietro a Cruise nei primi piani e piani medi. Un’anomalia progettuale che contribuì ad amplificare l’aura filmica di Eyes Wide Shut. Perché la New York immortalata da Kubrick in immagini fredde e profondamente cupe ci appare come realistica, ma più verosimile che reale: cartonata, finta ma che sa di esserlo. Come un sogno lucido a occhi aperti.

Infatti, più che un thriller erotico come fu pubblicizzato al tempo – e come spesso viene trattato ancora oggi in ambito critico (ma non solo) – Eyes Wide Shut è in realtà una riflessione complessa e stratificata sui delicati equilibri di un matrimonio, sui ruoli sociali e le maschere che gli individui indossano nella vita di tutti giorni, sulla crisi di valori della società borghese e sul rapporto dell’individuo con la sessualità tra desiderio, pulsioni e orge rituali. Componenti adagiate da Kubrick su di una narrazione angosciante e tesa dal ritmo cadenzato fatta di sfumature e silenzi, gelosie e minacce, dubbi e sospiri, tutta giocata sulla sottile linea di confine tra sogno e realtà. Sullo sfondo, il Natale con i suoi valori e il suo intrinseco simbolismo che si fa strada opponendo la realtà materiale del denaro, del potere e della corruzione d’animo alla carità e alla compassione.

Un film respingente, Eyes Wide Shut, magari di non facile e immediata fruizione, eppure fondamentale e da studiare perché – oltre che ultimo film di Kubrick – opera d’arte purissima tanto carnale ed estrema quanto intima e spirituale. In particolare per Kidman che sottolineò come Kubrick ne stimolasse l’istinto recitativo arrivando a parlare della lavorazione come: «Frequentare una scuola di cinema. Ad esempio, nella scena iniziale del film, quella in cui lascio cadere il vestito nero sul pavimento e rimango nuda: ero sola nella stanza con lui, dietro la telecamera che mi riprendeva, mentre camminavo per la stanza, lasciavo cadere il vestito e mi allontanavo. Lo stesso nella scena in cui mi metto il reggiseno, eravamo solo io e lui». Eppure tutt’altro che una passeggiata. Cruise e Kidman firmarono contratti a tempo indeterminato. Si dedicarono unicamente a Kubrick e come portare a compimento la sua visione del film.

Accettarono, perfino, di prendere parte a delle sessioni di psicoanalisi – a cui partecipò anche Kubrick – dove il terapeuta li guidò in un percorso in cui parlare delle loro paure sulle relazioni e sul loro matrimonio nella vita reale. Entrambi hanno giurato di non rivelare mai di cosa avevano parlato durante queste particolari sedute. Secondo Kidman, infatti, fu tutto talmente onesto, schietto e vivido che tali sessioni finirono presto per offuscare il confine tra il reale di Tom e Nicole con l’immaginario di Bill e Alice. Lo stesso può dirsi per la lavorazione perché, al fine di esagerare la sfiducia tra i loro marito e moglie immaginari, Kubrick diresse i due attori separatamente proibendo loro di condividere gli appunti. Le cose precipitarono quando si tratto di girare la sequenza onirico-erotica con il modello Gary Goba, ovvero, l’ufficiale di Marina che appare solo nei frammenti di gelosia monocromatici.

A Cruise fu negato l’accesso al set come fu impedito a Kidman di placare la tensione del marito in alcun modo. Era necessario conservare quello stato d’animo per le riprese: «Girammo quelle scene in tre giorni. Non credo che farei quello che ho fatto per nessun altro regista. Stanley voleva che fosse quasi pornografico, ma non mi ha sfruttata. L’ho fatto perché pensavo fosse importante per il film. Del resto Eyes Wide Shut parla di sesso e ossessione sessuale, e le scene non potevano essere di me in reggiseno e mutandine che fingevo di fare sesso con qualcuno. Dovevano avere una qualità grafica. È stato difficile tornare a casa da Tom dopo quelle scene, ma abbiamo entrambi deciso che ci saremmo persi in quel mondo per un anno e mezzo, ed è quello che abbiamo fatto. È un grande ricordo per noi, a volte era quasi uno stato onirico».

Il che ci porta, infine, all’affannosa post-produzione. Perché quella fu l’ultima scena prevista nel piano di lavorazione. Quando Kubrick scomparve il film era praticamente ultimato ma ancora nelle fasi finali della resa definitiva. Si trattò di decisioni legate al missaggio del suono, l’uso della colonna sonora, la color correction. Qualcuno potrebbe perfino dire che si tratta di elementi di natura minore ed esclusivamente tecnica, ma se la storia ci insegna qualcosa è che Kubrick era capace di stravolgere tutto sino all’ultimo minuto disponibile. Fu l’amico Steven Spielberg a supervisionarne le ultime fasi per la resa del montaggio definitivo. Il finale di una carriera straordinaria, Eyes Wide Shut (lo trovate su NOWtv, Prime Video e Apple TV+), un film (im)perfetto eppure irripetibile e che venticinque anni dopo proprio non smette di far parlare di sé…
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