ROMA – Folle, violento, ironicamente dissacrante. Cinquant’anni di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick. Un evento imperdibile per ogni cinefilo che per dovere di cronaca cade il 19 dicembre 1971 (giorno di una quadrupla première oltreoceano tra Los Angeles, San Francisco, New York, e Toronto). Cinquant’anni che sembrano artisticamente aver riallineato Arancia meccanica alla percezione del proprio tempo. Uno squilibrio ontologico per cui se il pubblico del 2021 ne ha saputo ben ammirare l’essenza filmica di caotica commedia nera sino ad elevarlo a iconico capolavoro – nonché opera più popolare del regista newyorchese – quello del 1971 ne demonizzò la violenza e la semantica sessuale. Soprattutto in terra britannica infatti Arancia meccanica ebbe vita (distributiva) difficile. Kubrick e Christiane ricevettero lettere intimidatorie e minacce di morte dettagliate che, unite a due efferati crimini imitativi, spinsero l’autore a ritirare l’opera dalle sale.
Per quasi trent’anni, dal 1973 al 1999, Arancia meccanica non è stato reso disponibile per la distribuzione pubblica. Alcuni negozi di videonoleggio britannici erano così inondati da richieste da apporre fuori dal negozio il cartello: «No, mi spiace, non abbiamo Arancia meccanica». I più coraggiosi come lo Scala Film Club di Londra scelsero di proiettarlo clandestinamente: la Warner, su insistenza di Kubrick, nel 1993 fece loro causa, e per poco non dovettero dichiarare bancarotta. Dal 2000 in poi, all’indomani della morte dello stesso Kubrick, Arancia meccanica venne liberato dal veto distributivo kubrickiano trovando finalmente la luce della sala cinematografica. I censori britannici diedero al film il rating 18. Un passo in avanti rispetto al Rating X del suo tempo che permise ad Arancia meccanica di diventare il secondo film per adulti nella storia del cinema dopo Un uomo da marciapiede di John Schlesinger del 1969 ad essere nominato agli Oscar.
Sembra quasi impossibile ad oggi scindere Arancia meccanica dalla visione autoriale di Kubrick. Eppure, come spesso capitato nelle grandi storie cinematografiche, a un certo punto della sua narrazione produttiva avrebbe potuto prendere ben altra via realizzativa. Tratto dall’omonimo romanzo del 1962 di Anthony Burgess – noto anche come Un’arancia ad orologeria – a partire dalla metà degli anni sessanta tanti si interessarono ad un potenziale adattamento cinematografico: dalle suggestioni musicali Frank Sinatra a Mick Jagger passando per le mani più esperte (e provocatorie) di Ken Russell e Tinto Brass. A spuntarla fu Kubrick per cui, in realtà, Arancia meccanica ha sempre rappresentato un piano b. All’indomani di 2001: Odissea nello spazio infatti Kubrick aveva in mente di realizzare un biopic su Napoleone Bonaparte dal (quasi) omonimo titolo: Napoléon, forse il più grande film mancato di tutti i tempi.
Complice infatti il flop commerciale di Waterloo di Sergey Bondarchuk, i finanziatori si ritirarono dal progetto. Contemporaneamente lo sceneggiatore Terry Southern – che con Kubrick collaborò alla stesura dello script de Il dottor stranamore – gli regalò una copia del romanzo di Burgess. Fu una folgorazione. Deciso a realizzarne una trasposizione cinematografica fedele e organicamente integra, Kubrick sapeva benissimo che per la buona riuscita del progetto era necessario trovare l’attore giusto per Alex DeLarge. Furono provinati Tim Curry e Jeremy Irons. Dopo la visione di If… di Lindsay Anderson – autentico gioiello filmico di ribellione giovanile antisistemica del 1968 – Kubrick capì che era Malcolm McDowell l’uomo giusto per dar vita al suo caotico anti-eroe. Furono quella mimica machiavellica e impareggiabile vestita di un sorriso strafottente e ironico a conquistarlo tanto da ammettere: «Se (Malcolm) non fosse stato disponibile probabilmente non avrei mai realizzato Arancia meccanica».
Tra i due nacque un’amicizia collaborativa fatta di goliardia e improvvisazioni, di rutti a comando, partite a scacchi (in cui vinceva sempre Kubrick), e a ping-pong (in cui, viceversa, vinceva sempre McDowell). Ecco un po’ per questo, un po’ per il carattere particolare del regista, ma sarà stato strano per McDowell scoprire il giorno di paga che Kubrick aveva decurtato le distensive ore di gioco. Non deve sorprendere più di tanto quindi come, all’indomani della fine della lavorazione di Arancia meccanica, i rapporti fra i due si ridussero al minimo sindacale. Kubrick non lo prese più in considerazione per altri ruoli nei film successivi. Per McDowell fu un duro colpo. Pianse sulla sua tomba e fu per sempre legato alla vedova Christiane. Nonostante questo si dice orgoglioso del ruolo di Alex DeLarge e, di riflesso, all’esperienza sul set di Arancia meccanica.
«Non credo di essermi mai divertito tanto a fare questo lavoro. Era un malvagio figlio di pu**ana Alex» dirà in merito. Del resto l’euforia interpretativa di McDowell va al pari con l’impatto esperienziale del pubblico. Quello tra DeLarge e lo spettatore è infatti un legame istantaneo. A partire dalla scena d’apertura con quel primissimo piano che la delicata zoomata rende sempre più dolce. In un progredire tra primo piano, piano medio, e campo lungo, dove a campeggiare è quella smorfia mista a sorriso di DeLarge che ci guarda in camera, fisso, in un misto di seduzione e provocazione seduto comodo e tronfio nel divanetto del Korova Milk Bar mentre tra le orecchie scorre il suo surreale voice-over introduttivo.
Kubrick apre così il racconto di Arancia meccanica, creando da subito il link emotivo-empatico con un DeLarge che se lo sviluppo del racconto ne codifica una dimensione caratteriale più bestiale che umana nel catapultarci della sua visione ideologica distorta del mondo fatta di ultraviolenza condita di pestaggi, stupri e visite a sorpresa, dall’altra Kubrick ne addolcisce gli intenti rendendolo innamorato della musica, macabro danzante nella sequenza di dolore di Singin’ in the rain, nonché sessualmente appagato dalle dolci note della Nona del Ludovico-Van.Un contrasto chiaroscurale, quello in seno alla dimensione caratteriale di DeLarge, che se la violenta e realistica scena madre della Cura Lodovico ne ribalta l’inerzia del paradigma valoriale di riferimento – rendendolo da eccellente carnefice a oppressa vittima sulle note divenute aspre del beethoveniano Inno alla gioia – dall’altra diventa esplicitazione di quel fil rouge alla base del cinema di Kubrick (il rapporto degli uomini con la ragione) attraverso cui veicolare una feroce critica sociale verso la brutalità delle forze dell’ordine e l’incapacità riformativo-educativa del sistema carcerario.
E a proposito della sequenza Singin’ in the rain: tutta pura improvvisazione dell’estro creativo di McDowell. Durante la ripresa della celebre visita a sorpresa impartita a Mr Alexander, Kubrick non riusciva a trovare un modo per rendere la scena convincente. Chiese così a McDowell di provare a cantare e ballare. Ne venne fuori un surreale momento di ultraviolenza e dolce su-e-giù al macabro ritmo di Singin’ in the rain che tanto entusiasmò Kubrick da decidere di acquistarne i diritti di utilizzazione per diecimila dollari nel giro di tre ore. Un grandioso momento cinematografico bizzarro e follemente anticonvenzionale che nell’ironico gioco degli opposti semantici targato Kubrick tra la violenza impartita e la leggiadria delle movenze, trova amplificazione in quell’inevitabile rimando all’omonimo capolavoro di meta-cinema del 1952 di Stanley Donen con protagonista (tra gli altri) Gene Kelly di gioiosa danza sotto la pioggia.
Ecco, Kelly non la prese proprio benissimo. Un paio di anni dopo il successo di Arancia meccanica McDowell incrociò Kelly ad un party hollywoodiano. La semplice presenza alla festa del volto di Alex DeLarge bastò per farlo andar via indignato. Ennesima conferma dell’incisività del solido racconto di Arancia meccanica, un dissacrante inno all’ultraviolenza senza tempo e fuori dal tempo, incompreso e rivalutato, e per questo da sempre destinato all’immortalità artistica.
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