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Greta Gerwig, la sorellanza di Barbie e l’utopia femminista di Margot Robbie

La bambola, il femminismo, il patriarcato, la Mattel e le critiche: il film da un altro punto di vista

Barbie
"Ma dove siamo? Nel Mago di Oz?". Ryan Gosling e Margot Robbie in Barbie.

ROMA – Premessa: Barbie è un film che dovrebbero vedere soprattutto gli uomini e chi, da sempre, odia la bambola bionda della Mattel. Perché? Perché riesce nell’arduo, impossibile, compito, di calarsi sia nei panni dello stereotipo sia in quelli dei suoi detrattori, ovvero le donne moderne che l’hanno sempre identificata come simbolo antifemminista e capitalista per eccellenza. Esattamente come ad un certo punto del film precisa la giovane Sasha (Ariana Greenblatt, non a caso una classe 2007). In realtà, come scopriremo poi, in origine Barbie era nata proprio per liberare le bambine da quei bambolotti che le volevano addestrare unicamente ad essere delle madri, dando così loro un modello di emancipazione che potessero imitare, ovvero una donna che finalmente potesse essere davvero tutto ciò che voleva: Barbie dottoressa, Barbie scrittrice, Barbie fisica, Barbie Presidente degli Stati Uniti e Barbie (finalmente) emblema di inclusione e accettazione. Qualcosa però non ha funzionato.

Barbie
Margot Robbie e i due Ken: Simu Liu e Ryan Gosling.

Così eccoci a Barbieland, landa rosa interamente plasmata sulle donne e in cui gli uomini, i Ken, sono ornamentali e vivono unicamente in funzione delle Barbie. Grazie all’incontro con la sua proprietaria – America Ferrera, la ricordate in Ugly Betty? – la bambola Barbie di Margot Robbie inizia un percorso di umanizzazione che passa dallo sperimentare le emozioni – come l’ansia e la tristezza, ma anche l’imbarazzo e la rabbia di fronte al catcalling e alle molestie degli uomini – fino ad arrivare a quelle più fisiche, come la comparsa del male per eccellenza: la cellulite. Nell’America e nella Hollywood post MeToo, Greta Gerwig non solo regala a Hollywood il primo blockbuster femminile e femminista, ma pone anche l’attenzione sulla necessità di rivedere i ruoli di potere. Così, se da una parte Barbieland ha una Corte Suprema formata unicamente da donne, dall’altra ai vertici della Mattel ecco schierato un plotone di dirigenti uomini (non un’operazione di fantasia visto che il CEO attuale è Ynon Kreiz…).

Barbie
Così va bene? O ero meglio in Harley Quinn?

L’impressione è che Gerwig e Baumbach – co sceneggiatore di Barbie e compagno di vita della regista – si siano bilanciati perfettamente, criticando sia il femminismo estremizzato, in cui gli uomini sono inutili e non posseggono nulla, che il patriarcato becero fatto di birre, machismo, relazioni a lungo termine, ma senza impegno. «Vivere a Barbieland significa essere perfetti in un luogo perfetto. A meno che tu non stia attraversando una crisi esistenziale. Oppure tu sia un Ken». In una società in cui le donne sono abituate a non essere mai abbastanza (cosa che viene ricordata loro continuamente), Gerwig spiazza il pubblico facendo intraprendere alla perfetta Barbie un percorso di umanizzazione e spostando l’attenzione sull’inetto Ken, che non è bravo a fare niente e vive solo per le attenzioni dell’amata. E sarà proprio lui – paradosso – a cercare il lieto fine e, per ripicca di fronte alla noncuranza di lei, a instaurare il patriarcato a Barbieland.

Barbie
Don’t Mess with Barbie: Margot Robbie e la banda.

Patriarcato che poi verrà rovesciato dal potere delle donne unite, con quella sorellanza tanto cara e celebrata dalla regista, la sisterhood che le risveglierà dall’incantesimo del servilismo nei confronti del maschio, un appello alle donne di tutto il mondo la cui forza risiede nella solidarietà e nell’unità. L’universo creato dalla Mattel è ovunque ed omaggia generazioni di giocattoli e merchandise, ma sono sempre la scrittura e la regia di Gerwig a dettare l’orientamento della storia. Barbie è una storia di autorealizzazione e crescita a tinte rosa che demolisce il modello di plastica e restituisce dignità al simbolo mostrando come chiunque – a prescindere dal genere, dall’aspetto e dalle abilità – abbia il diritto di scoprire cosa fare della propria vita lontano dagli stereotipi. Un messaggio indirizzato anche ai detrattori della regista che, proprio in occasione dell’uscita del film (Caspar Salmon sul Guardian ha scritto un pezzo inutilmente feroce), hanno preso ad attaccarla per aver abbandonato la sua anima indie in favore del mainstream.

Barbie
Non fatele arrabbiare: la sorellanza di Barbie.

Eppure – altro paradosso – anche la regista (che in realtà veniva da un altro progetto di una major come Piccole donne) esattamente come i suoi colleghi registi maschi (Barry Jenkins sta dirigendo Mufasa: The Lion King con la Disney, Taika Waititi è ormai discepolo Marvel) ha il diritto di liberarsi dal suo stereotipo indie e fare le cose in grande, con budget elevatissimi a disposizione e vernice rosa da lasciare a secco una nazione, soprattutto se in questo modo riesce a raggiungere un pubblico sempre più vasto e diversificato. Sì, perché Barbie è un film che sembra un blockbuster ma che al suo interno contiene molti livelli di discussione, quasi una sorta di cavallo di Troia portato sotto il naso degli executives di Hollywood, affaristi di prim’ordine e non certo dei progressisti illuminati. In fin dei conti, come insegna Barbie, chiunque può essere ciò che vuole. Figuriamoci Greta Gerwig… 

  • OPINIONI | Barbie e lo specchio di Greta: perché vedere il film?
  • VIDEO | Qui una featurette di Barbie:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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