ROMA – Siamo nel 1955. Nell’immaginaria cittadina di Asteroid City l’itinerario di una convention di giovani astronomi e cadetti spaziali organizzata per riunire studenti e genitori in una competizione accademica viene improvvisamente sconvolta. Ma da cosa? Da un incontro ravvicinato del terzo tipo (!) che cambierà per sempre il mondo e le loro credenze. Parte da questo (assurdo) assunto Asteroid City, l’ultima fatica del colorato universo immaginifico di Wes Anderson, che arriva due anni dopo il frainteso e poco amato The French Dispatch. Presentato in concorso a Cannes e al cinema dal 28 settembre, Asteroid City è un oggetto insolito, una commedia fatta di incroci di vita, sogni e speranze sotto il segno e la luce verde degli UFO.

Non solo, perché Asteroid City segna davvero una serie di interessanti prime volte: la prima volta senza Bill Murray nel cast dal 1996 di Bottle Rocket: Un colpo da dilettanti – l’esordio di Anderson – nonché la prima volta di Steve Carell (chiamato in sua sostituzione), Tom Hanks, Scarlett Johansson, Matt Dillon, Sophia Lillis (recentemente ammirata in Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri, ve ne abbiamo parlato qui), Margot Robbie e Maya Hawke in un film di Anderson. E poi ci sono i fedelissimi, quelli che si sa per certo che in un film di Anderson saranno ai nastri di partenza. E non solo nel comparto tecnico con l’ennesima collaborazione di Alexandre Desplat alla colonna sonora (fortemente evocativa di Grand Budapest Hotel) e della nostra Milena Canonero ai costumi, ma anche e soprattutto nella banda degli attori.

E quindi ecco Jason Schwartzman, Edward Norton, Bryan Cranston, Jeff Goldblum, Willem Dafoe, Bob Balaban, Fisher Stevens, Adrien Brody, Tilda Swinton, tutti volti noti della cinematografia andersoniana sempre in evoluzione, in mutamento e al servizio della sua visione. Un cast talmente ricco che per lo stesso Stevens questo è stato un collettivo particolare: «Quello di Asteroid City è il cast più selvaggio dai tempi de Il ponte sul fiume Kwai. Per via dei protocolli COVID-19 fummo riuniti in un vecchio monastero adibito a hotel…». A tal proposito, buona parte del secondo atto di Asteroid City ruota proprio attorno a una quarantena e come questa spinge i protagonisti a confrontarsi con sé stessi e il proprio vissuto tra passato e presente narrativo, un rimando evidente alla recente contemporaneità vissuta.

Come rivelato dallo stesso Anderson in un’intervista nel pieno della lavorazione, la pandemia non è casuale: «No, e non credo che ci sarebbe una quarantena in Asteroid City se non l’avessimo vissuta. Non è stato deliberato, la scrittura è la parte più improvvisata del mio processo creativo, si basa sul non avere nulla e costruirlo…». Ed ecco quindi la narrazione di Asteroid City, costruita tutta su un doppio livello cognitivo tra il bianco-e-nero del meta-linguistico e il coloratissimo della finzione dichiarata, in un ritmo cadenzato che fa saggiare allo spettatore ogni sfumatura e sapore di un mondo – quello ormai parallelo costruito dal regista – che appare qui più ricco, vivido e immersivo che mai. Un mondo lasciato vivere da Anderson nel concatenamento di immagini filmiche come piccoli momenti poetici intessuti tra loro da movimenti di cinepresa fluidi e armonici.

Carrellate geometriche a camera fissa, costruzioni ricercate, split screen, dettagli, particolari, campi lunghi colorati a perdita d’occhio, il repertorio delle tipicità registiche andersoniane le conosciamo bene. Tra Tenenbaum, Steve Zissou, Il treno per il Darjeeling, Moonrise Kingdom e Grand Budapest Hotel – senza dimenticare gli animati (e meravigliosi!) Fantastic Mr. Fox e L’isola dei cani – Anderson si è saputo distinguere per lo stile raffinato e la creazione di mondi che solo le esigenze dello sviluppo narrativo lineare hanno impedito allo spettatore di poterci vivere dentro. Con Asteroid City qualcosa è cambiato. Assistiamo ad un’inversione di tendenza, un’evoluzione della poetica. Il ritmo viene rallentato, il tempo afferrato. Anderson non indica nemmeno un reale filo conduttore narrativo se non nella contemporanea e corale presenza dei suoi personaggi ad Asteroid City.

Ed eccoli che vivono in una coralità di racconto mai così accentuata e tangibile. Lasciati emergere da Anderson in un insieme di volti e di voci, ognuno con il suo tono, il suo sapore, il suo ritmo, sullo sfondo del pittoresco deserto andersoniano: Schwartzman e Johansson una spanna sopra tutti per intensità, Carell potrebbe essersi ritagliato uno spazio importante nelle prossime produzioni di Anderson nella sua insostituibile mistura artistica dramedy, ma da Hanks a Swinton, le eccellenze in Asteroid City sono davvero tantissime. Che poi, in realtà, qualcosa di molto simile era accaduto con il precedente The French Dispatch. Un mero divertissement celebrativo (anche troppo) di uno stile a metà tra l’iconografie del New Yorker e il cinema di Jacques Tati, in cui Anderson ha scelto di sacrificare la compiutezza narrativa tipica del suo cinema in funzione delle logiche visive.

Questo per via anche della natura episodica di The French Dispatch. Una scelta che ha finito con il renderlo un film insolito e fortemente divisivo nei giudizi espressi da critica e pubblico, intimorito dall’idea che Anderson potesse aver perso, più che il suo tocco artistico, l’ispirazione, la compiutezza, il senso stesso del suo cinema giocoso e ricercato. Ora è tutto chiaro: Asteroid City è la diretta evoluzione del cambiamento inaugurato da The French Dispatch. È uno stile nuovo, meno prevedibile di raccontare cinema, dove l’apparente incompiutezza genera apertura a nuove frontiere. C’è però un elemento in comune a tutte le sue opere da Bottle Rocket in poi. In ogni forma possibile, i mondi di Anderson sono l’antidoto perfetto alle brutture del mondo reale, e questo, Asteroid City, ce lo ricorda in ogni suo bellissimo fotogramma.
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- VIDEO | Qui per il trailer di Asteroid City:
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