MILANO – Il male non esiste si apre e si conclude con la stessa inquadratura, con il medesimo movimento di macchina, una veduta lenta e inesorabile tra le trame ramificate degli alberi di una foresta, a cambiare è solo la sfumatura dello sguardo, dal sole alla notte, dalla luce al buio. Il male non esiste (Leone d’argento a Venezia 80) di Ryūsuke Hamaguchi è un viaggio che si muove su questo labile confine e che si racchiude totalmente nelle due sequenze che aprono e chiudono il cerchio della narrazione. Sequenze che sembrano quasi indipendenti da ciò che Hamaguchi poi raccorda tra inizio e fine, anche perché il nuovo film del premio Oscar per Drive My Car nasce da delle sequenze girate nella natura per un progetto sonoro della compositrice Eiko Ishibashi e che poi Hamaguchi espande e allarga costruendo così l’ennesimo capolavoro di una filmografia essenziale e stratificata.

Ed è proprio la natura il centro, tutto si muove intorno a lei, la struttura si deforma per seguire i suoi movimenti, la sceneggiatura si spoglia di ogni architettura e si affida al flusso dell’acqua e degli alberi. Il male non esiste interseca due mondi: la realtà di Takumi (Hitoshi Omika) – un tuttofare con una figlia piccola di nome Hana (Ryô Nishikawa) – edificata dalla neve, dai fiori, dalle querce e gli abeti, una natura incontaminata che ospita un piccolo villaggio autogestito dagli abitanti e la realtà della città che vuole costruire in quel microcosmo incontaminato un glamping, un camping glamour che unisce l’esperienza del campeggio alle dinamiche di una vacanza di lusso. Due universi dicotomici che collimano, la città che vuole impossessarsi delle sfumature ambientali ed emotive che non possiede e che chiede aiuto a Takumi, la personificazione estrema di quel mondo così inesplicabile, inafferrabile, sfumato.

E Takumi, infatti, è il mistero più grande che inscena Hamaguchi: taglia la legna con imponente forza e diligenza, aveva una moglie che forse è morta o forse è andata via, ha una figlia che spesso scompare e non si fa mai accompagnare a casa quando finisce scuola, non è interessato ai soldi quando gli offrono di diventare il guardiano del nuovo progetto, promuove costantemente la ricerca di un equilibrio capace di districarsi tra il bene e il male. E Il male non esiste segue la scia misteriosa di Takumi e gioca con sottile ironia e leggiadria onirica sul contrasto reversibile e relativo tra città e campagna, tra natura e progresso, tra pragmatico capitalismo e la bucolica immersione nella natura. Hamaguchi gioca con il tema del pregiudizio, e se i buoni fossero i cattivi? E se i cattivi fossero i buoni? Chi è veramente Takumi? Cos’è la verità, la realtà o la bugia più convincente?

Hamaguchi si limita a mostrare, si abbandona a una regia composta di flussi e movimenti lasciati liberi di esprimersi per comporre un quadro che restituisce un’esperienza immersiva e prosciugante, una dilatazione visiva portata ai confini del tempo, fino ad arrivare a un finale che slitta verso un’altra dimensione, una sequenza che è già indimenticabile per come pone l’essere umano al suo posto, non al centro, ma di sbieco, succube e tassello dipendente da una natura madre, regina, che merita rispetto e benevolenza. E l’inspiegabile diventa necessario per guardarsi dentro, per ricercare il proprio equilibrio, per provare a rispondere su cosa sia il male, e se il male esista o meno.
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