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Tommy Lee Jones, Will Smith, Manhattan e quel caffè alieno: Men in Black

Il film di Sonnenfeld? Un intramontabile classico degli Anni Novanta, tra sci-fi e comedy

A due passi dal molo di Battery Park, nella punta più a sud di Manhattan, c’è una costruzione imponente. Salta all’occhio perché, se ci passate al tramonto, è l’unico edificio (relativamente) basso ad essere illuminato da una luce speciale. Oltre che essere sempre chiuso e circondato, stranamente, da perenni lavori in corso. La struttura in questione, in verità, altro non è che la parte frontale del Brooklyn Battery Tunnel, dove c’è il sistema di ventilazione della galleria. Ma, il suo aspetto così misterioso e austero, si presta anche ad un’altra, fantascientifica, interpretazione.

Will Smith e Tommy Lee Jones a Battery Park.

Perché, se a New York può accadere di tutto, è probabile che questa sia davvero la sede inaccessibile degli uomini in nero. L’intuizione, l’ha avuta Barry Sonnenfeld, che nel 1997, basandosi sulla seria a fumetti di Lowell Cunningham, porta al cinema le teorie complottistiche sugli UFO e dei relativi agenti segreti. Così, non è poi strano se, dentro quel cubo, incontriamo un Tommy Lee Jones che, con assoluta disinvoltura, offre ad un perplesso Will Smith, un caffè appena preparato da un gruppo di sboccati alieni a forma di vermoni.

Caffè?

La scena, quasi all’inizio di Men in Black, è fondamentale per capire le intenzioni di Sonnenfeld: divertire, stupire, giocare con la fantascienza. Uno dei blockbuster per eccellenza degli Anni Novanta – con annessi sequel: uno meno brillante, mentre il terzo quasi al livello dell’originale e ora un obbligato reboot/remake/sequel in arrivo nel 2019 –, è stato tra i primi a rivisitare il genere in chiave comedy. A tratti spassoso, senza tralasciare l’azione ma ammiccando con battute folgoranti – ”No, signora. Noi dell’FBI non abbiamo senso dell’umorismo, che io sappia”, oppure ‘‘No, Elvis non è morto, è soltanto tornato a casa”, per fare due esempi –, e un look visivo irresistibile. Perché, sia Will Smith che Tommy Lee Jones, Agente J e Agente K, nei black suits, con annessi Ray-Ban neri e orologi Hamilton al polso, sono uno schianto in fatto di portamento, stile, approccio cinematografico di attori opposti ma precisi nel ruolo. Appunto, come un abito sartoriale fatto su misura.

Men-in-Black
Iconic Duo.

Teatro, come detto, la Grande Mela, piena zeppa di alieni, porto intergalattico e crogiolo di razze, umane e non, con la dogana gremita di strani esseri, alle prese con il border control che ricorda tanto quello dell’aeroporto JFK. E che bello seguire J e K, scoprendo con loro che pure Sylvester Stallone proviene da un altro pianeta. Insomma, il senso spettacolare che Sonnenfeld da alla sua trilogia – funzionando sia sulla critica che sul pubblico, essendo stato un successo commerciale incredibile, al netto dei cinecomic – va a rispecchiarsi con l’inclusione del ”diverso” nella comunità.

Will Smith e Tommy Lee Jones, Agente J e Agente K.

Del resto, gli alieni, gli UFO e tutto ciò che non è ben identificato, incute timore solo perché è sconosciuto. Facile, quindi, l’allaccio con la realtà – già nel 1997 – suggerita da Tommy Lee Jones quando dice: ”Una persona è matura. La gente è un animale ottuso, pauroso e pericoloso, lo sai anche tu”. E sì, ventuno anni dopo, da nord a sud, da ovest a est, gli alieni continuano a fare paura. Pure se provengono dalla stessa, nostra galassia.

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