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L’America che cambia e un caffè sorseggiato all’alba: Colazione da Tiffany

Una delle pellicole fondamentali del Novecento? Comincia per strada con un caffè sulla Fifth Avenue

È l’alba, eppure i timidi raggi di sole già luccicano sui vetri di New York. La Quinta è deserta – insomma, è pur sempre il 1961 – da lontano si avvicina uno di quei cub gialli verso l’inquadratura scelta dal regista, Blake Edwards. Dal taxi, sorniona e aggraziata, scende una donna, bellissima. Capelli raccolti, un paio di occhiali neri (icona sull’icona), un tubino nero che dovrebbe essere in qualsiasi armadio di tutte le donne del mondo. Outfit perfetto ma inusuale, per quel momento, per quell’alba, per quella colazione. Perché la donna si avvicina verso la vetrina che ha impresso la storia della pubblicità e della globalizzazione. Guarda dentro, da una sbirciata, tira un sospiro.

colazione da tiffany
La colazione di Audrey Hepburn. Uno dei momenti indelebili del cinema del Novecento.

Lì, davanti ai gioielli di Tiffany, al 727 5th Avenue, Holly Golightly, con i guanti neri e le perle al collo, mangia una brioche e sorseggia, pensierosa, un caffè bollente. Quello, è il suo rifugio, la sua aspirazione, il suo momento. Una vetrina maestosa su cui sognare, un caffè nero da bere, prima ancora che la città – che non dorme mai – si svegli, prima ancora che Holly faccia i conti con chi sia veramente. «Io vado pazza per Tiffany… specie in quei giorni in cui mi prendono le paturnie», dice. Il resto, a cominciare dagli archi di Moon River che accompagnano l’immortale sequenza iniziale, cuciti su misura da Henry Mancini per il volto minuto e perfetto di Audrey. Lei, manifesto di una nuova femminilità nel cinema del Novecento.

colazione da tiffany
Gatto e Holly, svogliata, lasciva, pigra. E adorabile.

Così, Colazione da Tiffany, diventa, attimo su attimo, la pellicola simbolo di una nuova America che sta sorgendo. Con quella Holly, ripresa di schiena, dal basso, a riflettere se stessa e quello che vorrebbe essere, in un mondo che, piano piano, sta lasciando sempre più spazio all’apparenza, all’opportunità da sfruttare e poi gettare via, all’arrivismo a tutti costi. Perché la Holly di Breakfast at Tiffany’s non è, nel suo assoluto, un personaggio positivo, anzi. È la metafora di un cambiamento senza scrupoli, almeno finché – un attimo prima dello splendido finale – si rende conto che, magari, la semplicità può salvarla dal precipizio. Lo aveva capito prima di tutti Truman Capote (ovviamente), autore del libro da cui è tratto il capolavoro di Blake Edwards, dipingendo nel romanzo una storia molto più cattiva di quella della pellicola: senza happy ending, niente speranze, una Holly spudoratamente american geisha.

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George Peppard e Patricia Nelson. Dietro, quello sguardo.

Con Capote che, in un gioco di incroci, voleva la bionda Marilyn Monroe per la parte. La storia, perfettamente costruita dietro uno strato da rom com irresistibile a tutti, la conosciamo bene: Holly è disposta a tutto (pure a far visita ad un criminale, ogni settimana, al carcere di Sing Sing) pur di affermarsi. Ma affermarsi dove? Non ha importanza: scappa da un passato lontano da ragazza del Sud, la Grande Mela è il palcoscenico perfetto per essere qualcuno. I party, gli uomini che contano, gli Stati Uniti che diventano capitale universale della pubblicità. Frivola, svagata, superficiale, capricciosa. Eppure non possiamo fare a meno di amarla (e di odiarla, anche), come quando, nascosta da un cappello infinito, abbassa sul naso gli occhiali, scrutando cosa c’è nel mondo vero.

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Il finale: Holly, Gatto e Paul.

E ci trova un Gatto arancione e senza nome come lei (quasi il motore del film intero), nonché un uomo simbolo del tempo che sta mutando: il sognatore Paul Varjak, interpretato da George Peppard, è infatti come Holly, pur radicalmente diverso. E quante volte siamo stati il George della situazione, provando a cambiare la Holly del momento. Ma non c’è verso, perché “Non si può dare il proprio cuore a una creatura selvatica: più le si vuole bene, più diventa ribelle”. I suoi momenti chiave – la Hepburn che canta Moon River, appoggiata alla finestra, fa scuola per la costruzione della narrazione – i suoi dialoghi emblematici, come quando nella New York Public Library, Holly se ne va indignata, poiché “Qui non è come da Tiffany, lì può succedere di tutto!”. Del resto, Holly è così, adorabile lunatica, che si imbatte nell’amore e nella sostanza delle lacrime bagnate da una pioggia torrenziale, sul finire di una favola dolce eppure amara, come quel caffè da bere al mattino, prima che tutto cambi, ancora e ancora.

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