ROMA – «Come andiamo? Te la prendi una bella tazza di caffè con me?». Lì, a circa metà delle tre ore di film, c’è l’incontro tra due nomi che, a metà degli Anni Novanta (con sulle spalle altri vent’anni di ruoli indimenticabili) erano il riassunto di cosa significasse davvero il cinema. Sia chiaro, ancora oggi, nonostante tutto, sono e resteranno per sempre Robert De Niro e Al Pacino, ma in quei dieci minuti di scena c’è la scintilla, l’intuizione, la grandezza assoluta. Il merito di quel caffè offerto dal detective Vincent Hanna (Pacino) al criminale Neil McCauley (De Niro) e dei correlati flussi di coscienza al tavolo del bar, è tutto di Michael Mann – probabilmente solo uno tosto come lui, in quel periodo, poteva riuscire a farli incontrare, illuminandoli con le luci al neon di un diner di Los Angeles – che nel 1995 tirò fuori dalla macchina da presa uno tra i più memorabili film della storia: Heat – La Sfida.
Quel film, imponente per durata, produzione, realizzazione e annesso, fortissimo successo – 187 milioni globali, calcolando l’inflazione, sono tanti – era la bellissima copia di una bozza dello stesso Mann, ovvero il film tv Sei solo, Agente Vincent (L.A. Takedown), ispirato alla storia vera di un gatto e di un topo, in una nobile caccia tra loro e tra le loro stesse personalità. Tra l’altro, in un incrocio di storie, la vicenda gliela raccontò Chuck Adamson, ex sbirro di Los Angeles, divenuto consulente e amico di Mann durante le riprese di un altro capolavoro: Strade Violente. Ma, se pur ambizioso, quel film tv non poteva contenere la potenza di una storia, ancora oggi, memorabile e colma di richiami metaforici, quasi religiosi. Così, con la sceneggiatura che, anno dopo anno, frullava in testa a Mann, si è passati all’azione, dura e pura, a cominciare dal primo comandamento: far leggere a tutto il cast Come una bestia feroce, primo romanzo di Edward Bunker (in Italia edito da Einaudi) che, di per sé, visto cosa abbia lasciato alla scrittura e al cinema, meriterebbe un capitolo a parte.
La storia di Heat, del resto, con una Los Angeles carnivora e protagonista, è quella di due personalità diverse eppure complementari. Il ladro e il poliziotto, il buono e il cattivo, il cacciatore e la preda. C’è un abisso tra loro, risalito a nuoto verso quell’incontro, quel caffè che sa di momento storico. Pacino e De Niro, Hanna e McCauley. E, alla fine dei giochi, con una corsa a perdifiato senza esclusione di colpi, lo spazio scenico e significativo non può più reggerli. Come se il carico, talmente pesante, cedesse, dopo un viaggio di sequenze, volti, momenti, che fanno di Heat qualcosa in più. Tutto è studiato, tutto è incollato, tutto è parallelo tra quelle strade brutali, con la trama semplice quanto complessa. Un rapinatore spietato e un ligio tenente, in mezzo tante storie e fotografie da grande romanzo americano (c’è Val Kilmer, Jon Voight, Tom Sizemore, una giovanissima Natalie Portman) concatenato in un effetto domino, forse biblico.
Ed ecco perché, riassaporandolo con calma, il caffè di Heat, offerto ma non bevuto – insomma, c’è comunque un codice da rispettare, e Hanna e McCauley conoscono perfettamente le regole del gioco – è uno dei capitoli da libro di scuola, con due che non mollano un centimetro, che non danno spazio alla vita regolata. «Mi ci vedi a rapinare un negozio di liquori con scritto in fronte “arrestatemi, sono un perdente”?». «No, in effetti no». «Bravo. Non tornerò mai in prigione». «Allora è meglio che tu cambi lavoro». No, non gli basta la partita in tv e il barbecue, Pacino e De Niro (già assieme ne Il Padrino – Parte II ma mai, prima di allora, faccia a faccia) perché sono fatti di un’altra miscela che, unita, diventa esplosiva. Si parlano, si scrutano, si confidano, quasi dolcemente, ad armi basse, per una volta e una soltanto. Basta questo. A loro e a noi. Così poco, così tanto.
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