MILANO – Cos’è Shorta? Un film, ma forse qualcosa di più, che racconta una storia che conosciamo, tristemente, bene. Presentato alla scorsa Settimana della Critica a Venezia e ora su CHILI, il film dei registi danesi Anders Ølholm e Frederik Louis Hviid è lo spaccato di una realtà che spesso si ripete: la brutalità della polizia e le tensioni razziali. I fatti: la Danimarca è scossa da un fatto di cronaca. Durante un arresto la polizia ha ucciso, soffocandolo, un ragazzo di 19 anni, Talib Ben Hassi (cosa vi ricorda?). Iniziano le proteste, le rivolte della comunità araba, le accuse alle forze di polizia, che devono muoversi in punta di piedi per non aggravare la situazione. Le macchine della polizia non possono più essere viste nel ghetto di Svalegården, dove Talib abitava, pena l’essere oggetto di rappresaglie e atti violenti. Insomma, tutto questo suona famigliare?
Terribilmente attuale, soprattutto se si pensa che Shorta è stato ispirato da un fatto di cronaca accaduto trent’anni fa. Un secolo, trent’anni, oggi. Non ci sono differenze per uno scontro che si protrae da tempo immemore. Ma Ølholm e Hviid però non puntano il dito e non prendono una parte. Non c’è uno schieramento politico perché Shorta non vuole essere un film politico. Non ci sono buoni e cattivi, il bene e il male. Ci sono solo esseri umani – diversi tra loro ma pur sempre umani -, con i loro sentimenti, i loro pensieri e, ovviamente, le loro imperfezioni e i rispettivi, tanti, Pregiudizi. Nello specifico, la sceneggiatura si concentra su Jens e Mike, due poliziotti in servizio che nel seguire una macchina sospetta si avventurano proprio in Svalegården. A seguito di una rappresaglia molto violenta, rimangono bloccati nel quartiere con un ragazzo che avevano appena arrestato (tris di grandi interpretazioni quelle di Jacob Lohmann, Simon Sears e Tarek Zayat).
E lì, mentre giungono faccia a faccia con la realtà del ghetto, sentiamo (molto più di quanto vediamo), che in qualche modo ci siamo anche noi. Ci siamo noi, con i nostri pregiudizi che ci portiamo avanti da secoli. Perché anche qui, ognuno ha il suo punto di vista e crede che sia quello giusto, ognuno pensa di avere ragione senza conoscere e capire le ragioni dell’altro. “Se per tutta la vita ti considerano in un modo, finisci per crederlo anche tu”, sentiamo dire da una madre. È vero, e i due poliziotti, pian piano, iniziano a capirlo. In Shorta, davvero folgorante nella sua cruda e asciutta messa in scena, non vuole esserci una risoluzione, in fondo quando Ølholm Hviid lavoravano al film il movimento Black Lives Matter non aveva nemmeno ancora fatto la sua comparsa. Però, nel film, c’è tanta speranza.
O meglio, un risveglio; quello che ci porta a scoprire che forse il nostro punto di vista non è l’unico, che c’è molto di più dietro a quelle storie, dietro gli stereotipi che siamo abituati a sentire. La consapevolezza, piano piano, viene fuori, e appare lampante che spesso ci nascondiamo dietro a finte certezze, per comodità o facilità. Un ragazzo viene ucciso dalla polizia, scoppiano rivolte, gli oppressi contro gli oppressori. Ma non c’è dell’altro? È questo tutto quello che conta? Domande complicate, risposte impossibili. Così Shorta conferma il talento di Frederik Louis Hviid e Anders Ølholm, reduce da Letters for Amina, ed è già una rivelazione: c’è la nostra realtà, o almeno quella parte che tutti desidereremmo cambiare, con la speranza che un giorno riusciremo a vederci – veramente – l’un l’altro per come siamo. Senza pregiudizi.
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- Shorta: intervista a Anders Ølholm e Frederik Louis Hviid
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