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Riccardo Milani: «Il posto dell’anima, quelle storie di fabbrica e il set con Monicelli…»

L’Abruzzo, la gente, il ricordo e i racconti: il regista celebra i vent’anni del suo terzo film

Riccardo Milani
Riccardo Milani in uno scatto di Claudio Iannone e i tre protagonisti de Il posto dell'anima: Placido, Orlando e Santamaria

ROMA – Ci sono film che rimangono solo film. Vengono visti e rivisti, ma sempre film rimangono. Poi ce ne sono (pochi) altri che diventano luoghi, segnano strade e ricordi. E il caso de Il posto dell’anima di Riccardo Milani, pellicola che ha appena compiuto vent’anni e che dal 2016, a Cisterna di Latina, ha anche un luogo: Largo Il Posto dell’Anima. «Il luogo dove l’anima dei caduti sul lavoro si ferma durante il loro viaggio verso il cimitero», precisò al tempo Agostino Campagna del comitato ex lavoratori Goodyear di Cisterna, la fabbrica da cui partì la sceneggiatura firmata da Milani e Domenico Starnone. Per celebrare il film, noi di Hot Corn siamo andati a trovare il regista durante il missaggio del suo nuovo film, Un mondo a parte, con Antonio Albanese e Virginia Raffaele, al cinema dal 28 marzo. «Con cui tornerò ancora una volta in Abruzzo», sorride lui. Prodotto da Lionello Cerri e distribuito dalla 01, Il posto dell’anima uscì in sala a maggio del 2003, terzo film del regista dopo Auguri professore e La guerra degli Antò. «Sono molto legato a quel film. Tra tutti quelli che ho girato è senza dubbio uno dei lavori che ricordo maggiormente, anche e soprattutto oggi…».

Il posto dell'anima
Riccardo Milani in studio durante il nostro incontro.

LA STORIA – «Partiamo dall’inizio? Sì. Allora tutto cominciò alla fine degli anni Novanta, a Cisterna di Latina, quando la Goodyear, fabbrica di gomme, licenziò 547 operai mettendo a rischio l’equilibrio di oltre cinquecento famiglie. Una storia vera, trasformata in sceneggiatura poi da me e da Domenico (Starnone, nda), la vicenda di una fabbrica che era il motore economico non solo di Cisterna, ma anche di altri luoghi che vivevano dell’indotto, come la fittizia multinazionale CarAir, produttrice di pneumatici, che si vede nel film, in un piccolo centro dell’Abruzzo che stava morendo ai tempi e che oggi, con pochi abitanti rimasti, è praticamente scomparso. Nel film si chiama San Marcellino, ma in realtà era San Sebastiano dei Marsi, a Bisegna, in provincia dell’Aquila. Il film voleva raccontare sì la tematica degli operai e della disoccupazione, ma anche della salute e del ricatto del lavoro, perché gli operai, consci dei pericoli che correvano, si erano esposti anche a malattie pur mantenere il posto…».

il posto dell'anima
Riccardo Milani in piazza, a Vasto, sul set con Silvio Orlando. Era il 2002.

LA FABBRICA – «Per scrivere la sceneggiatura ascoltammo molti operai, persone che ci raccontarono la loro vicenda umana che non si legava solo alla chiusura della fabbrica, ma anche a tutto il percorso lavorativo e personale di quegli anni. Erano persone sinceramente affezionate alla loro industria, a quel luogo di lavoro, tanto che la chiamavano Mamma Guddyar, dandole del tu. In qualche modo sentivano che era stata una mamma che, per anni, li aveva protetti, nutriti, li aveva aiutati a metter su famiglia, a realizzare i loro obiettivi. Questo grande senso di riconoscenza fece sì però che poi si sentissero profondamente traditi quando la fabbrica voltò loro le spalle. I loro racconti erano in bilico tra commedia e dramma, come il film. Rimasi molto colpito dal loro modo di raccontare quello che gli era accaduto, perché erano capaci anche di ridere su quello che era successo. Ancora oggi molti degli operai fanno parte di una gruppo Facebook (lo trovate qui, nda) che tiene il conto delle persone decedute e che cerca di mantenere quel filo…».

Il posto dell''anima
Silvio Orlando e Paola Cortellesi, ovvero Antonio e Nina, in una scena de Il posto dell’anima.

LA SFIDA – «Raccontare quel tipo di storia non fu semplice, tanto che – ripensandoci ora – credo che girare un film del genere oggi sarebbe molto difficile. Perché? Perché si fanno sempre meno film con tematiche politiche, perché forse esiste una sorta di autocensura degli stessi autori che scrivono e che evitano alcuni argomenti. No, non fu semplice mettere in piedi Il posto dell’anima. Ricordo che pur di girarlo accettai di completarlo in un numero di settimane ridotto per limitare i costi: avevo l’occasione di girare la storia nel modo che avevo in mente e con chi volevo. Con Silvio (Orlando, nda) avevo già girato il mio primo film, Auguri Professore, e non avevo alcun dubbio: il ruolo di Antonio detto Tonino era suo. Dopo avergli parlato del film, venne con me in fabbrica: voleva conoscere gli operai che avevano ispirato il soggetto, entrare in confidenza con loro. E tra gli altri attori, da Michele Placido a Claudio Santamaria e Paola Cortellesi, un altro personaggio fu l’Abruzzo: girammo a Vasto, nella piazza del Duomo, a Punta Penna dove c’è la fabbrica, e a Cupello, con alcune scene anche a Pescasseroli e San Sebastiano dei Marsi».

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Mario e Salvatore: Claudio Santamaria e Michele Placido in un altro momento del film.

LA LEZIONE DI MONICELLI – «Ho iniziato nel 1986 come assistente alla regia con Mario Monicelli sul set di Speriamo che sia femmina, un maestro unico. Tra i tanti che ho conosciuto forse uno dei pochi di cui custodisco un insegnamento ancora oggi. Fu lui il primo a dirmi che il cinema deve essere considerato un lavoro e che ogni persona sul set deve rendersi utile. Cercare di non lasciarsi trasportare troppo dall’idea dell’arte, ma vedere sempre il cinema come un mestiere concreto, tangibile. Mi disse che non era funzionale stare dietro al monitor per occupare il tempo, era più importante – banalmente – andare in strada e bloccare il traffico se c’era una scena in esterna. Ricordo che sul set di Speriamo che sia femmina non stavo un attimo fermo: era estate, era la prima volta che non la trascorrevo in vacanza con i miei amici, ma ero felice. Spesso mi capitava di tenere l’ombrello ad attrici come Liv Ullmann o Catherine Deneuve, perché non dovevano perdere il trucco e – nonostante fosse una piccola cosa- ricordo che ero grato e fiero di quello che stavo facendo…».

Liv Ullmann e Catherine Deneuve in Speriamo che sia femmina. Era il 1986.

IL MESTIERE – «Un consiglio ai giovani che vogliono provare a fare questo mestiere? Non pensate al cinema di Ingmar Bergman quando arrivate il primo giorno sul set, ma cercate di trovare il bello in cose minori che vi occupano il tempo. Senza snobbarle. Il cinema è anche questo, il cinema significa raccontare una storia attraverso il lavoro di tutti, un lavoro importante, collettivo che – di conseguenza – diventa poi anche un modo di raccontare anche il Paese. Mi ricordo che negli anni Settanta discutevo con i miei compagni di Cineforum, anche animatamente, sulla qualità di alcuni film che vedevamo in lingue impossibili con sottotitoli illeggibili e incomprensibili. Vedevamo titoli assurdi pur di non vedere film in bianco e nero tipo I soliti ignoti che invece raccontavano benissimo il nostro Dopoguerra…».

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Milani in studio durante un altro momento della nostra intervista.

IL CINEMA ITALIANO – «Continuo a credere che il cinema debba essere realizzato per il pubblico, non per un piccolo gruppo di persone che devono darti la patente di regista. L’ultimo fine dev’essere quello di soddisfare il pubblico, non autoriale. Ecco forse questo, a volte, lo dimentichiamo. Come mi spiego il boom di C’è ancora domani e il ritorno in sala delle persone? Credo che la gente abbia voglia di vedere storie che possano lasciare un messaggio etico, ravvivare una memoria che a volte la quotidianità fa sfuggire. Il film di Paola (Cortellesi, nda) parla alla testa e al cuore delle persone, non lo si deve dimenticare quando si cerca di analizzare il fenomeno. Secondo me però non è vero che c’è questa fantomatica crisi del cinema, o che c’è stata: veniamo solo da un periodo in cui si era perso di vista l’obiettivo principale, ovvero realizzare film che potessero non solo incontrare il favore del pubblico, ma anche emozionarlo, parlarci…».

 Il posto dell'anima.
Ancora Milani con Michele Placido sul set de Il posto dell’anima.

LA VITA – «Veniamo da anni difficili, la pandemia ci ha costretto in casa, abbiamo assistito – inevitabilmente – al boom delle piattaforme, ci siamo anche impigriti, abbiamo cambiato abitudini. Credo sia anche stata una conseguenza naturale per sopravvivere. In quel momento le persone avevano bisogno di soddisfare un’esigenza e l’unico modo per farlo durante il COVID era tramite le piattaforme. Nessuna meraviglia. Però forse oggi abbiamo capito di nuovo come – e quanto – la vita sia fatta di molto altro: è fatta di teatro e di incontri, di stare in un cinema insieme e di confronto. Così, adesso che la vita è tornata alla normalità, la gente è tornata a vivere il fattore esperienziale che solo la sala di un cinema sa regalare…».

  • VIDEO | Qui la nostra intervista a Riccardo Milani:

 

 

 

 

 

 

 

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