ROMA – «Ci sono probabilmente cinque film che ho fatto e che terrei per me: La rosa purpurea del Cairo, Match Point, Mariti e mogli, Midnight in Paris e Zelig». Così parlò Woody Allen in un’intervista del 2016. Una risposta davvero sorprendente per certi versi, specie perché – e gli alleniani di ferro lo avranno notato immediatamente – mancano all’appello quei film insindacabilmente ritenuti i suoi capolavori: Io e Annie, Hannah e le sue sorelle, Crimini e misfatti e, non ultimo Manhattan, del 1979, la cui assenza nell’elenco di Allen fa parecchio rumore ma non deve sorprendere più di tanto. Nonostante i 140 milioni di dollari totalizzati al box-office lo abbiano reso il suo secondo miglior risultato al botteghino (il primo è Io e Annie), infatti, Allen non ha mai amato il Manhattan prodotto finito, tanto da arrivare a chiedere espressamente alla United Artists di non distribuirlo.
Ci arriverà comunque in sala Manhattan, il 25 aprile 1979, conquistando il cuore di milioni di spettatori di tutto il mondo, ma Allen fece deve davvero di tutto pur di fermarne la distribuzione. Si offrì perfino di realizzare un film gratuitamente («Ho pensato, tra me e me, se questo è il meglio che posso fare a questo punto della mia vita, non dovrebbero darmi soldi per fare film» dirà Allen in merito) così che la United Artists potesse rientrare dei costi di produzione di quello che riteneva essere un disastro su tutta la linea: «L’ho odiato, in ogni suo fotogramma. Ho anche realizzato Stardust Memories per la United Artists, così che Manhattan potesse rimanere sullo scaffale, ma niente. E anche dopo tutti questi sforzi, ancora oggi, non riesco a credere come abbia potuto avere un simile successo commerciale. Non posso credere di averla fatta franca».
E dire che lì per lì, quando in Allen scoccò la scintilla da cui poi nacque Manhattan, era tutto diverso. Era puro, semplice, senza ripensamenti e condizioni. Dopo il successo di Io e Annie, gli executives della United Artists gli diedero letteralmente carta bianca. Inviarono una nota a Charles H. Joffe e Jack Rollins, i suoi fedeli produttori-agenti, con una frase da riferire poi al loro assistito: «D’ora in poi, fai quello che vuoi». Dapprima ci fu Interiors, anch’esso in bianco-e-nero, ispirato a Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill del 1957 e reso nelle forme di un dramma bergmaniano. Poi proprio Manhattan, pitchato alla United Artists come l’incontro artistico tra Io e Annie e Interiors e definito da Allen come: «Una visione di New York come vorrei che fosse e come può essere oggi (cioè ieri, sempre) se ti prendi la briga di camminare per le strade giuste».
Perché in fondo è esattamente di questo che parla Manhattan. Di incroci, di bivi, di strade che si sceglie di intraprendere, di scelte, di momenti in cui è necessaria un’inversione a U per arrivare dove vogliamo davvero arrivare. E come sempre sullo sfondo c’è l’amore, perché non c’è film in cui Woody Allen non parli degli uomini, dell’amore e di come questo piombi nelle loro vite sconvolgendole. In questo caso, le vite di Isaac, Tracy, Mary, Yale, Emily e Jill tra unioni e separazioni, W.C. Fields e La Grande Illusione, progetti di vita e ricongiunzioni. Sino a quel finale, che nel ricordarci come a volte, nella vita: «Bisogna avere un po’ di fiducia – sai – nella gente», ancora oggi, a quarantacinque anni di distanza, stupisce per la spontaneità dello scambio dialogico, fino a rievocare, in purezza, quello (meraviglioso) di Luci della Città di Charlie Chaplin.
L’arena è la Grande Mela, che di Manhattan è il deuteragonista silenzioso, microcosmo vitale, cristallizzata in un bianco-e-nero densissimo che lascia poco spazio a spiragli di luce, sino a renderla nostalgica ma al contempo sospesa e temporale: «Non so, forse una reminiscenza di vecchie fotografie, libri, film, ricordi e tutto il resto, è così che ricordo New York da bambino» disse Allen in merito alla soluzione d’immagine optata con il DoP Gordon Willis. Il resto di Manhattan, la sua magia, è dettata dalle musiche di George Gershwin (Rhapsody In Blue, Someone to Watch Over Me su tutte), che del film sono il cuore, il punto di partenza e quello di arrivo: «L’immagine si è evoluta dalla musica. Un giorno stavo ascoltando un album di ouverture di Gershwin, e in quel momento pensai che sarebbe stata una cosa bellissima farci un film. Un film romantico e in bianco-e-nero».
Non a caso sono proprio le sonorità di Rhapsody in Blue ad avvolgere l’apertura e chiusura di racconto, tra vedute iconiche dello skyline di New York e synch sonori resi leggenda da giochi pirotecnici. Nel mezzo, una fiaba urbana e universale sul senso della vita e sui motivi per cui vale la pena vivere («Il vecchio Groucho Marx, per dirne una, e Joe DiMaggio, il secondo movimento della sinfonia Jupiter e Louis Armstrong, l’incisione di Potato Head Blues, i film svedesi, L’educazione sentimentale di Flaubert, Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili mele e pere dipinte da Cézanne, i granchi di Sam Wo…il viso di Tracy…» dice Allen in uno dei momenti chiave del film), in perfetto e delicato equilibrio tra commedia e dramma, tenerezza e ironia. Eppure, nonostante per critica, pubblico e addetti ai lavori, Manhattan sia un’opera unica e irripetibile, ci sono delle ombre alla base.
Come la narrazione, ispirata nelle sue dinamiche relazionali ad episodi realmente accaduti tra lo stesso Allen – all’epoca quarantaduenne – l’ex-modella Babi Christina Engelhardt e l’attrice Stacey Nelkin che al tempo delle loro fugaci relazioni con il regista avevano, rispettivamente, sedici e diciassette anni. Il personaggio di Tracy (in origine si pensò a Jodie Foster per la parte) è caratterizzato su entrambe. Un’esperienza non facile per la quasi esordiente Mariel Hemingway che di Manhattan fu rivelazione e folgorazione. Al momento delle riprese, infatti, la poco meno che diciottenne Hemingway non aveva nemmeno mai avuto un fidanzatino al liceo. Per settimane si preoccupò della scena del bacio con Allen, che poco dopo la fine delle riprese le propose una fuga romantica a Parigi a bordo del suo jet privato.
Nonostante tutto, però, Manhattan (lo trovate su Prime Video) – e con essa la nomination agli Oscar 1980 come Miglior attrice non protagonista – le diedero autostima e coraggio per il proseguo di una carriera che purtroppo non è mai veramente decollata. E questo, nonostante negli anni abbia collaborato con registi come Bob Fosse (Star 80) e Blake Edwards (Intrigo a Hollywood). Con Allen tornerà a lavorare per una piccola ma spassosa parte in Harry a Pezzi, uno di quei suoi piccoli-grandi film sempre troppo poco celebrato datato 1997, ma quella è tutta un’altra storia…
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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