PARIGI – Un cesto pieno di frutta, un divano e un enorme schermo alla parete. «La trama la conosce, vero?», mi chiese Luc Besson, in piedi nella sala montaggio degli studi della EuropaCorp, alla Cité du Cinéma di Parigi. «Adesso le mostrerò Lucy». Un’ora dopo la visione – folgorante – il regista mi aspettò in una stanza adiacente, pronto a raccogliere i commenti e parlare della sua carriera. Era il 2014. Oggi Besson ha sessantun anni, una carriera di quaranta stagioni alle spalle (cominciò nel 1981 da un cortometraggio) e una serie di cult in archivio – da Nikita a Léon. Ecco come, durante un’intervista di un’ora, ci raccontò (e spiegò) Lucy e il viaggio dei suoi film, un dialogo che di fatto è (anche) una Masterclass, una lezione di cinema.
I MIEI FILM – «Se rivedo mai i miei film? Sì, ogni tanto li riguardo in televisione, spesso con i figli. Poco tempo fa ho rivisto con Mao (ultimogenito, nda) proprio Léon. Che ne penso? Devo dire che ha tenuto bene il passaggio del tempo, me lo sono proprio goduto. Ecco, il mio obbiettivo è riuscire a girare pellicole di cui essere fiero tra vent’anni. Quella è la mia missione. Il resto, dal successo di pubblico al botteghino fino all’opinione della critica, conta relativamente. Ancora oggi, per esempio, sono fiero di uno dei miei lavori considerati da molti una cosa minore: Angel-A».
LA MIA LUCY – «Lucy? Per quel film grande parte del merito va a Scarlett (Johansson, nda) che ha accettato la sfida. Non giri un film del genere se non vuoi superare i tuoi limiti di attrice, altrimenti cerchi qualcosa di più rassicurante. Le ho mandato la sceneggiatura e, dopo una telefonata, ha accettato. Mi ha colpito la sua attitudine. Zero diva, grande lavoratrice che arriva sul set concentrata e cerca di dare il massimo. Durante le riprese che abbiamo fatto qui a Parigi, stava nella stanza a fianco a questa (indica il muro con la mano, nda). Si era attaccata al muro una serie di bigliettini per entrare meglio nel personaggio. Alla fine è riuscita a fare un lavoro incredibile».
LA SPIEGAZIONE – «Una scimmia femmina su un fiume, ovvero Lucy – un Australopithecus afarensis – vissuta 4 milioni di anni fa e i cui resti vennero trovati nel 1974, in Etiopia. Parte da lì Lucy. Osservato dall’esterno può sembrare un film d’azione, in realtà lo spunto era riflettere sull’evoluzione del cervello umano. Tutto inizia da una teoria secondo cui usiamo solo il 10% del cervello, la maggior parte delle risorse non le sfruttiamo nemmeno. Mi sono chiesto: ma cosa succederebbe se qualcuno ci riuscisse? Ecco, quel qualcuno è Lucy».
IL PASSATO – «Non faccio questo mestiere per soldi, o per il bonifico dei produttori. Fosse per quello, beh, avrei già smesso. Giro film per passione. Il cinema mi ha salvato la vita, probabilmente a quest’ora sarei già morto se non fossi riuscito a diventare regista. Quando avevo diciassette anni, i miei genitori erano istruttori di sub e io volevo fare il biologo marino. Era quello il mio destino, non riuscivo a immaginare altro. Poi arrivò un brutto incidente, un dottore mi disse che non avrei potuto più fare immersioni. Fine della storia. Non avevo la più pallida idea di cosa avrei fatto, fino a quando non arrivai su un set. E rimasi folgorato…».
AVENGERS? NO, GRAZIE – «Dimenticate supereroi o cose alla Wonder Woman, non c’entrano nulla: la forza di Lucy è una forza mentale, non ha nulla a che vedere con quello, non è nemmeno nello stesso campo da gioco. Cosa penso dei cinecomics? Dipende di quali film Marvel parliamo. Iron Man, per esempio, ha un attore talmente forte – Robert Downey Jr. – che risulta sempre godibile e me lo guarderei comunque, mentre se dovessi dire la mia opinione su film come Thor, beh, diciamo che mi interessa meno…».
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