MILANO – La parola ai giurati di Sidney Lumet è il miglior manifesto cinematografico possibile per un penalista. Il film è un ottimo compendio per insegnare allo spettatore – quasi sempre ignaro di giurisprudenza – attraverso la finzione e l’espediente narrativo quei principi giuridici del diritto penale processuale che dovrebbero essere la base portante di ogni ordinamento: il principio di eguaglianza, il principio del contraddittorio, la presunzione di non colpevolezza. Non solo: l’esordio di Lumet, era il 1957 e lui all’epoca aveva trentaquattro anni, è anche una grandiosa celebrazione del potere della parola e dell’importanza dell’argomentazione.
La parola ai giurati (lo trovate su Prime Video in flat) è un’opera serratissima che si svolge in un unico spazio ambientale: una sala, dove dodici giurati si confrontano per decidere, in base alle testimonianze e agli atti processuali, se un ragazzo mulatto di diciotto anni è colpevole dell’omicidio del padre, e condannarlo così alla pena di morte. Soltanto uno di loro (Henry Fonda) non è convinto della sua colpevolezza e, pian piano, riuscirà a smantellare le convinzioni e i pregiudizi dei suoi colleghi, inseminando in ognuno di loro un ragionevole dubbio.
Lumet descrive passo dopo passo le operazioni che porteranno a una decisione unanime: la non colpevolezza dell’imputato. Nessuno di loro sarà in grado di dimostrare che non sia stato lui a commettere l’omicidio, ma nello stesso tempo nessuno può provare con certezza il fatto contrario: “in dubio pro reo”, nel dubbio si giudica in favore dell’imputato. Una regola che è il fondamento dell’organizzazione giuridica di ogni democrazia, e perciò è una regola di civiltà e di umanità.
La parola ai giurati è però anche un impietoso ritratto del razzismo inconscio della middle class americana: i giurati, bianchi e borghesi, sono quasi tutti convinti della colpevolezza del ragazzo e vorrebbero velocemente archiviare la questione, senza approfondire gli eventi accaduti e ignorando i dettagli che smascherano le contraddizioni e le incertezze della ricostruzione. Ognuno di loro è un ritratto psicologico raffinatissimo, che rappresenta una delle molteplici facce del conservatorismo a stelle e strisce. Anche (e soprattutto) sessantatré anni dopo.
Proprio grazie all’abilità argomentativa e persuasiva del personaggio interpretato da Fonda, Lumet suggerisce che il confronto verbale è il mezzo migliore per abbattere ogni barriera mentale. Una lezione di diritto e una lezione di cinema: l’utilizzo della macchina da presa non è mai meccanico, ma sempre diretto a evidenziare quelle piccolezze di racconto che soltanto un grande regista può mettere in luce.
- LONGFORM | La parola ai giurati, Fonda, Lumet e quei dodici uomini arrabbiati
- OPINIONI | Giurato Numero 2, la recensione
- VIDEO | Qui per il trailer del film
Lascia un Commento