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La Parola Ai Giurati | Henry Fonda, Sidney Lumet e quei dodici uomini arrabbiati

Le origini, i remake, Lee J.Cobb, la modernità. Ma perché (e come) riscoprirlo in streaming?

Lee J. Cobb è il famigerato Giurato Numero 3 in La parola ai giurati di Sidney Lumet
Lee J. Cobb è il famigerato Giurato Numero 3 in La parola ai giurati di Sidney Lumet

ROMA – Agli albori della carriera Sidney Lumet si guadagnò la nomea di regista veloce e attento al budget. Si specializzò nei cosiddetti drammi antologici ovvero programmi dal taglio storico-sociale che andavano principalmente a scandagliare la storia americana (e non) ricostruendone gli eventi più significativi. Lui lo showrunner dietro a You Are There – tra le pietre miliari della Golden Age televisiva – e sempre lui convinse il leggendario anchorman Walter Cronkite a prendervi parte come voce della storia. Inoltre diresse qualcosa come 200 episodi complessivi tra Kraft Television Theatre, Studio One e Playhouse 90, o per farla breve era lui la scelta giusta per adattare in forma filmica La parola ai giurati, o così la pensavano l’Henry Fonda produttore e la United Artists che per l’impegno produttivo misero a disposizione appena 340.000 dollari. Una cifra non da poco (per l’epoca) ma sempre nell’ottica di un low-low-budget.

La parola ai giurati di Sidney Lumet fu presentato in terra statunitense il 10 aprile 1957
La parola ai giurati fu presentato negli USA il 10 aprile 1957

Criticità a cui Lumet fece fronte in modo brillante, in particolare nello sfruttare gli angoli di luce adatti. Il risultato? Alcuni dialoghi vennero estrapolati e girati in parte nella stessa giornata lavorativa. Ciò significava che i controcampi dello stesso scambio dialogico avrebbe visto la luce della cinepresa a distanza di giorni se non settimane. Le riprese furono completate in soli 17 giorni. Velocità realizzativa resa possibile da una serie di prove intensive a telecamere spente così da sfruttare meno pellicola possibile e al contempo creare autenticità, amalgama e sintonia tra gli attori. Tante comunque le vite produttive de La parola ai giurati (lo trovate su Prime Video in flat), dalla sua prima volta come dramma televisivo della settima stagione di Studio One nel 1954 di Franklin J. Schaffner, al libero remake di Nikita Mikhalkov del 2007 (12) sino al celeberrimo (e omonimo) remake televisivo del 1997 firmato William Friedkin.

I titoli di testa de La parola ai giurati
I titoli di testa de La parola ai giurati

Quest’ultimo, in particolare, arricchito dalla presenza attoriale di volti come Jack Lemmon, George C. Scott, Courtney B. Vance, Hume Cronyn, Tony Danza, Edward James Olmos, James Gandolfini e William Petersen, mantenne fede allo script di Reginald Rose e a stile registico (e atmosfere) di Lumet riuscendo, al contempo, a correggere alcune evidenti problematiche dell’originale, come una maggior varietà etnica. Eppure, nonostante si parli de La parola ai giurati come un esordio folgorante per Lumet (fu presentato a New York il 10 aprile 1957) un instant-classic di quelli che entrano nella storia del cinema dalla porta principale, non ebbe grande impatto al tempo. Candidato ad appena 3 Oscar 1958 (Miglior film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura non originale) quell’anno rimase a guardare, soccombendo dinanzi a un titano come Il ponte sul fiume Kwai – che di Oscar quell’anno ne vinse 7 – ebbe ben poco appeal commerciale.

Henry Fonda è il Giurato Numero 8, l'eroe de La parola ai giurati
Henry Fonda è il Giurato Numero 8, l’eroe del film

Incassò poco meno di 2 milioni di dollari world-wide. Un magro guadagno quello de La parola ai giurati, quasi alla stregua del flop commerciale, che a detta di Henry Fonda – che qui oltre che attore vestì i panni di produttore – fu riconducibile ad una strategia di distribuzione non all’altezza da parte della United Artists: non ebbe mai la lungimiranza di ri-distribuire l’opera in sala dopo le nomination agli Oscar e in quell’unica volta che entrò nel circuito nazionale fu proiettato in sale non adatte a un film piccolo come quello di Lumet. Nonostante questo, il mancato pagamento differito come accordi e l’essersene andato a metà del primo screen-test (dove elogiò l’operato di Lumet sussurrandogli all’orecchio «Sidney, è magnifico»), fu comunque orgoglioso de La parola ai giurati considerandolo come una delle sue performance migliori al pari di Furore, Sfida infernale e Alba fatale.

Un'immagine promozionale del film
Un’immagine promozionale del film

Una simile discrepanza di opinioni e azioni nel dibattito intorno al valore de La parola ai giurati è ascrivibile al ruolo dell’oramai mitologico Giurato numero 8 di Fonda. Inserito dall’AFI’s 100 Years….100 Heroes and Villains al 28esimo posto tra i più grandi eroi della storia del cinema hollywoodiano, l’architetto dal vestito bianco dall’agire metodico votato alla ricerca della verità e del bene contro ogni ragionevole dubbio per mezzo del dialogo socratico è l’unico tra i dodici giurati di Lumet disposto, sin dal primo momento, a non buttar via la vita del giovane presunto parricida destinato altrimenti al fondo dell’abisso. Agente scenico portatore sano di inestimabili valori benevoli non dissimili da quelli dell’Atticus Finch de Il buio oltre la siepe, quintessenza degli eroi positivi a cui Fonda prestò volto e fattezze nella prima parte di carriera.

Lee J. Cobb è il famigerato Giurato Numero 3 la "nemesi" del Numero 8 di Fonda
Lee J. Cobb è il famigerato Giurato Numero 3 la “nemesi” del Numero 8 di Fonda

Come le regole della narrazione c’insegnano però, per ogni eroe c’è bisogno di una nemesi e per un eroe benevolo e brillante come il Giurato numero 8 si rendeva necessaria una controparte altrettanto malevola e famigerata: il Giurato numero 3 di Lee J. Cobb. Se il Giurato numero 8 di Fonda è il primo infatti a provare a cercare la verità, a mettere in dubbio le opinioni degli altri undici giurati riconsiderando l’attendibilità delle prove, l’operato del giudice, perfino dell’avvocato della difesa, l’ultimo a rimanere sulla sua posizione è proprio il Giurato numero 3: sadico, dogmatico, ottuso, sbrigativo, emotivamente distaccato, violento. L’opposto valoriale del benevolo numero 8 in buona sostanza, per poi cedere, infine, in quello struggente ed emotivo climax in cui si lascia andare a un pianto liberatorio che pone i sigilli alla valenza filmica di un’opera come La parola ai giurati.

L'ingresso del tribunale
L’ingresso del tribunale

Personaggi quindi, che nel reticolato narrativo intessuto da Rose e Lumet sono si i simulacri della dicotomia bene/male e delle sue ragioni, ma solo in forma simbolica, velata, tanto da venire infine affievolita da quel giaccone poggiato sulle spalle con fare paterno che va a decretare la fine delle ostilità. Vestono semplicemente il ruolo di eroe e nemesi del conflitto dialogico de La parola ai giurati, ma in quell’arena, e solo per le sorti del presunto parricida. Fuori di lì sono semplicemente uomini comuni, ognuno con la propria vita, sogni, aspirazioni, marca di birra preferita e squadra di baseball per cui fare il tifo. Ecco, nonostante la struttura corale e le sue tante anime e volti – su cui capeggiano Numero 1 (Martin Balsam) e Numero 7 (Jack Warden) – l’intero conflitto va progressivamente ad asciugarsi ad ogni step dialogico in un dualismo tra i Giurati numero 3 e 8.

Lo scontro dialogico tra il Giurato numero 3 e 8: il cuore narrativo de La parola ai giurati
Lo scontro dialogico tra il Giurato numero 3 e 8: il cuore narrativo de La parola ai giurati

Confronto dalla forbice valoriale netta ma che va via via a consumarsi con il dispiego del conflitto scenico. All’avvicinarsi della risoluzione infatti, Lumet associa – oltre che un ritmo dialogico sempre più netto e incisivo – una gestione delle lenti registiche progressivamente più cupa e claustrofobica passando da telecamere piazzate al di sopra dello sguardo con delle lenti grandangolo (con cui dare una sensazione di maglie larghe e distanza tra i soggetti) a piani medi leggeri e veloci a primi e primissimi piani pesanti con il fine ultimo di porre al minimo la profondità di campo e serrare il respiro registico (e dello spettatore). Questo fino al climax dove l’agognata unanimità di intenti de La parola ai giurati permette all’obiettivo di riallargarsi dando, infine, libertà d’azione e leggerezza massima ai suoi interpreti. Nel mezzo c’è la criticità del sottotesto: il disprezzo per la vita umana e la dignità della stessa.

John Savoca è l'accusato in una scena del film
John Savoca è l’accusato in una scena del film

Nella meticolosa costruzione d’immagine fatta di dissolvenze marcate che tra apertura e chiusura di racconto vanno a racchiudere, al loro interno, l’intera ratio filmica dell’opera, Lumet vi dà consistenza declinandone i caratteri, ora nel non metterci mai al corrente esplicitamente dell’etnia del presunto parricida, ora nella leggerezza con cui lo si vorrebbe mandare alla forca per la fretta d’andare allo stadio a vedere gli Yankees, ora – più semplicemente – sulla base di pregiudizi razziali dolorosamente senza tempo. È un gioco di indizi quello de La parola ai giurati, da cui Lumet ne fa emergere la portata istruttiva dallo sporco riflesso desunto dalle orribili parole del Giurato numero 10 (Ed Begley). Un agire di fatto ignobile (ma sempre più attuale) a cui tutti si oppongono in un linguaggio del corpo che vale molto più di mille parole tutti i giurati, superando i confini del tempo per cristallizzarsi nella memoria comune.

La scena madre de La parola ai giurati: l'opposizione fisica e di intenti alle parole del Giurato Numero 10 (Ed Begley)
La scena madre de La parola ai giurati: l’opposizione fisica e di intenti alle parole del Giurato Numero 10

Non a caso, a condannare in forma dialettica il deprecabile Giurato numero 10, non può che essere l’agente scenico di Fonda, la coscienza del racconto de La parola ai giurati, attraverso misurate e sagge: «È difficile mantenere i pregiudizi personali al di fuori di queste cose. Quando questo accade il pregiudizio offusca sempre la verità. Io non so quale sia la verità, e immagino che nessuno di noi lo saprà mai. Nove di noi ora sembrano ritenere che l’accusato sia innocente. Ma stiamo solo basandoci su delle probabilità. Possiamo sbagliarci. Stiamo forse cercando di lasciar libero un colpevole. Non so. Nessuno può saperlo. C’è in noi un ragionevole dubbio. E ciò è d’importanza capitale nel nostro sistema. Nessuna giuria può condannare un uomo se non è più che certa. E noi nove non comprendiamo come voi tre siate ancora così sicuri».

Nei cinema italiani La parola ai giurati fu distribuito il 4 settembre 1957
Nei cinema italiani La parola ai giurati fu distribuito il 4 settembre 1957

È un kammerspiel marcato e dal ritmo teso La parola ai giurati. Un’opera dai contenuti traslabili ben oltre la dimensione narrativa abilmente costruita da Lumet e Rose sino a rappresentare un’opera dall’insito valore pedagogico di problem solving nella tecnica di risoluzione dei conflitti e delle dinamiche di squadra. Del resto, se il box-office del 1957 non ne premiò la caratura artistica – probabilmente perché in controtendenza tra l’esplosione del technicolor e degli ambiziosi kolossal –la prova del tempo dimostra come il linguaggio filmico moderno di cui si fregia la narrazione di Sidney Lumet nel cucire addosso alla carica valoriale dell’eroico e zelante Giurato numero 8 un messaggio di speranza e tolleranza verso un mondo migliore, finisce con l’essere più attuale oggi che non al momento del rilascio in sala. Un autentico manuale di narrazione registico-dialogica: un assoluto capolavoro nell’unico senso possibile del termine.

  • LONGFORM | Furore, Fonda, Ford, la Route 66 e la Grande Depressione
  • WESTCORN | Sfida infernale, Henry Fonda, John Ford e il mito di Wyatt Earp
  • VIDEO | Qui per il trailer di La parola ai giurati

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