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La Grande Abbuffata | Mastroianni, Tognazzi e i cinquant’anni della farsa di Marco Ferreri

I chili di Andréa Ferréol, i fischi a Cannes, la modernità: un capolavoro radicale da riscoprire in sala

La grande abbuffata.
Marcello Mastroianni e Andréa Ferréol ne La grande abbuffata.

ROMA – «In questo film, quanto a cibo, è successo di tutto, le galline ubriache, di tutto. E non c’era solo quello, c’era la me*da, c’erano i rutti, è stata una grande abbuffata di tutto quello che poteva riguardare il cibo». Così parlò Marco Ferreri a proposito de La Grande Abbuffata, un’opera che era molto di più di paté di fegato, cosce di cervo, Torta Andrea, petto di gelatina e crostata di natiche: «E alla fine sì, c’era l’idea dell’inutilità dei beni di consumo, tutta quell’accumulazione negativa, era un’immagine molto chiara. Oggi La Grande Abbuffata è finita. La borghesia finisce con questo film. Dopo c’è la post-borghesia. Ogni giorno di più esisteranno solo i padroni e gli operai. Ci sono gli operai, i padroni e gli emarginati. I padroni e gli operai dureranno vent’anni. Poi ci saranno solo gli emarginati». E questa fu l’incredibile profezia di Ferreri, esattamente cinquant’anni fa.

La Grande Abbuffata di Marco Ferreri fu presentato in concorso a Cannes26 il 21 maggio 1973
La Grande Abbuffata di Marco Ferreri fu presentato in concorso a Cannes il 21 maggio 1973

Parole lucide, spaventosamente preveggenti, che nell’anticipare la precarietà del nostro tempo, profetizzano l’avvento degli yuppies rampanti degli anni Ottanta prima e l’ingannatoria sensazione di benessere degli anni Novanta poi. Prima di tutto però c’è La Grande Abbuffata e la sua essenza da film fisiologico di rifiuto e condanna alla società dei consumi, reso nella forma di un lungo, satirico, e apocalittico baccanale, un’orgia sadiana di cibo, sesso, escrementi, flatulenze e morte, dalle immagini che invitano lo spettatore a un rapporto tattile con il mezzo filmico. Tipico del Ferreri-autore il mostrare, il sospendere il giudizio lasciando lo spettatore in balia delle proprie sensazioni, guidandolo in un percorso lineare ma accidentato dove il grottesco interviene a gamba tesa lasciando che il reale appaia talmente inverosimile da sembrare costruito: «Non voglio fabbricare le sensazioni, voglio trovare quelle che già esistono e utilizzarle. Voglio entrare in un’immagine che mi stimoli».

I titoli di testa di La Grande Abbuffata
I titoli di testa di La Grande Abbuffata

Ed ecco quindi incisioni di grotteschi quadri filmici di corruzione d’animo e istinti primordiali, resi cinema da Ferreri e dal suo sistema narrativo chiuso di un percorso già scritto, replicato opportunamente. Collocato in un presente fragile con cui è impossibile relazionarsi, attraverso un occhio registico di soltanto apparente indifferenza, Ferreri racconta del risveglio di coscienza degli uomini dal torpore di un rigido modello istituzionale da seguire. Questo genera nei suoi personaggi – e di riflesso in noi spettatori – una sensazione di instabilità, un guardare in faccia il proprio vuoto interiore colmato soltanto dal soddisfare le proprie pulsioni. Nel caso de La Grande Abbuffata questo si traduce nel cibo come azione di (in)volontaria autodistruzione identitaria oltre che sociale – ultima speranza nascosta nella disperazione del vivere – e di corpi che pesano, sudano, parlano, e mangiano, concentrati unicamente sui limiti dei loro stomaci.

Philippe Noiret, Ugo Tognazzi e Andréa Ferréol in una scena de La Grande Abbuffata
Philippe Noiret, Ugo Tognazzi e Andréa Ferréol

Lungo il fine settimana di reclusione in un casale parigino sempre più buñueliano alla maniera del salotto dell’assurdo de L’Angelo SterminatoreUn monumento all’edonismo» dirà Buñuel de La Grande Abbuffata) i protagonisti assistono al progressivo abbandono delle regole sociali del mondo esterno, depotenziando la propria vita sino a ridurla alla fisiologia più cruda e pura – ingurgitare, digerire, dormire, bere, ruttare, vomitare, copulare, orinare, defecare – in modo da eliminare l’io vitale e le ultime scorie dell’ideologia borghese che li ha plasmati. Uno svuotamento che coincide con l’approccio attoriale dei quattro interpreti, i titanici Mastroianni, Noiret, Piccoli, Tognazzi, qui prestatisi a un gioco recitativo che li vede in possesso dei loro nomi, Marcello, Philippe, Michel, Ugo, ma denudati, offrendosi a Ferreri come involucri scoperti: «Ferreri non esige mai dall’attore un’interpretazione definita, ti parla di un vestito di sensazioni che sono quelle che provano tutti gli individui» disse Tognazzi in merito.

Michel Piccoli in una scena di La Grande Abbuffata
Michel Piccoli

Un divertissement gastronomico i cui contorni narrativi si prestano, in realtà, ad un’ulteriore riflessione allegorica. Se è vero infatti che i quattro protagonisti de La Grande Abbuffata vivono di vita caratteriale propria, pur accomunati da un’esistenza precedente sterile e vuota e da un triste e surreale destino, è possibile intravedere in loro una dimensione altra, nuova, che ne estende i confini oltre lo schermo. Le inerzie di cui si fanno portatori infatti finiscono con il rendere Marcello, Philippe, Michel e Ugo come totem archetipali, rispettivamente, di giustizia e legalità, industria dello spettacolo, la cucina e il cibo, e l’avventura, o per dirla con le parole di Ferreri: «I quattro del film sono come un solo personaggio, si completano a vicenda, sono la società che conosciamo, ma non è che decidano in partenza che vanno a suicidarsi, loro vanno a mangiare. Cambiano vita, semplicemente».

Marcello Mastroianni e Andréa Ferréol in una scena del film
Marcello Mastroianni e Andréa Ferréol

«E poi c’è questo processo di accelerazione della morte, una decisione che viene fuori inconsciamente, l’autodistruzione non è una cosa cosciente», ma nasce dalle circostanze e dalle necessità dell’ambiente intorno. Lo svuotamento identitario e sociale intessuto da Ferreri quindi, come atto rivoluzionario dell’abbattimento dei costrutti chiave su cui si fonda la società di ieri come quella di oggi, mezzo secolo dopo. E se è vero che oggi si parla de La Grande Abbuffata come di un cult assoluto, nella sua epoca di riferimento generò non pochi scandali per via dell’abbondanza di volgarità scatologiche. Presentato in concorso a Cannes 26, l’opera di Ferreri fu platealmente fischiata alla sua prima mondiale e non solo perché, come co-produzione franco-italiana, ritrasse in modo impietoso la società francese (e parigina in particolare). A detta di Noiret: «Abbiamo mostrato alle persone uno specchio e a loro non è piaciuto affatto vedersi dentro».

«Ferreri non esige mai dall'attore un'interpretazione definita, ti parla di un vestito di sensazioni che sono quelle che provano tutti gli individui» (Ugo Tognazzi)
«Ferreri non esige dall’attore un’interpretazione definita, parla di un vestito di sensazioni» (Ugo Tognazzi)

Ai fischi, Ferreri rispose alla sua maniera, mandando baci alla folla inferocita, e tanto bastò per calmare gli animi visto che da Cannes se ne andrà via con il Premio FIPRESCI della critica internazionale ex aequo con La maman et la putain di Jean Eustache per un’accomunanza niente affatto casuale. Entrambi capolavori maledetti di quella decade e pesantemente censurati, assieme a Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci andranno poi a formare quella che i Cahiers du cinéma definirono la Trilogia della degradazione per via della sgradevolezza delle immagini, la dialettica vuoto (sesso)/pieno (cibo), l’esplorazione del corpo e la forza eversiva delle tematiche trattate. In Italia la censura sforbiciò i suoi 135 minuti originali riducendoli a 112. Minutaggio ripristinato quasi integralmente nel 2019, quarantasei anni dopo, grazie al restauro prezioso compiuto da CG Entertainment per il mercato Home Video.

Assieme a Ultimo Tango a Parigi e La maman et la putain fa parte di quella che i Cahiers chiamarono la Trilogia della degradazione
Assieme a Ultimo Tango a Parigi e La maman et la putain fa parte della Trilogia della degradazione

Nel Regno Unito fu originariamente proiettato senza licenza al Curzon di Mayfair, inducendo l’attività pro-censura Mary Whitehouse a intentare un’azione penale contro La Grande Abbuffata, Ferreri, le società di produzione Mara Films (Francia) e Capitolina Produzioni Cinematografiche S.r.l. (Italia) e i proprietari del cinema, ai sensi del Vagrancy Act. Il caso fu respinto portando il censore James Ferman a estendere gli effetti dell’Oscene Publications Act in modo da impedire che i film con merito artistico venissero perseguiti. Soltanto nel 1994 il pubblico britannico ha potuto godere del film nella sua forma integrale. Un’ultima curiosità a proposito del personaggio femminile chiave, la Andréa dell’allora sconosciuta Andréa Ferréol qui al battesimo di fuoco. Da sempre etichettata come l’angelo della morte de La Grande Abbuffata, in verità rappresenta soprattutto la guida e salvezza biologica degli uomini in scena, come tipico di ogni personaggio femminile nel cinema di Ferreri.

Andréa Ferréol in una scena di La Grande Abbuffata
Andréa Ferréol

Il suo casting ha un retroscena incredibile. Per quel ruolo Ferreri voleva un’attrice formosa e sovrappeso. Uno dei suoi assistente suggerì la Ferréol: «Mi chiamarono una mattina, alle 9, non conoscevo Ferreri ma conoscevo il resto del cast. Quel ruolo rappresentava la donna, la sorella, l’amante, l’angelo della morte. Questa donna ha capito che volevano morire e ha deciso di accompagnarli. Mi sono detta: Questo ruolo lo avrò! E ho cominciato a mangiare». Al momento dell’incontro con Ferreri si presentò con tre maglioni addosso e degli stivali: «Dovevo prendere ancora venticinque chili in soli due mesi, con il suo accento italiano mi ha chiesto se potevo ingrassare ancora un altro po’. Certo che potevo! Rossa, ottantacinque chili, ero pronta!». Tra l’altro la Ferréol fu ingaggiata con un bizzarro contratto di ferro per cui sarebbe stata pagata per ogni chilo in più preso sul set.

Ci fu perfino il tempo di fare un'imitazione di Marlon Brando in Il Padrino
Ci fu perfino il tempo di fare un’imitazione di Marlon Brando in Il Padrino

Alla produzione, inoltre, l’onere di un programma dimagrante per rimetterla in forma. Durante le riprese de La Grande Abbuffata fu attrazione magnetica con Mastroianni. Energia che appare evidente nella scena in giardino, quella del confronto tra le natiche di Andréa e quelle della statua: «Iniziai a tremare finché, con tatto e gentilezza, mi rassicurò: Non ti toccherò, sembrerà che lo faccio, ma non ti sfiorerò nemmeno. Ho pensato: è così come con le iniezioni, non sentirò niente! In effetti, non ho sentito niente, ora me ne pento un po’, sarebbe stato un bel ricordo. Anni dopo, abbiamo avuto una piccola avventura di una notte, ma è questa scena in cui non è successo niente che io paradossalmente custodisco nella memoria». Lei, come noi e come tutti i fortunati spettatori che ne hanno saputo godere – e ne potranno godere ancora dall’11 dicembre, in sala (e in versione restaurata e senza censure), grazie a Cat People – sedotti e travolti da un’opera irripetibile e spiazzante dal cuore di puro cinema.

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Qui sotto potete vedere una clip del film: 

 

 

 

 

 

 

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