ROMA – «C’era la baguette, c’era il burro e ci guardavamo, e senza dire niente sapevamo cosa volevamo» e da quel momento, da quell’intuizione lussuriosa avuta per puro caso assieme a Marlon Brando mentre facevano colazione, Bernardo Bertolucci stravolse completamente la percezione di Ultimo tango a Parigi popolandolo di uno scomodo e per certi versi infelice retaggio. Perché la cosiddetta scena del burro – che dell’economia del racconto è mera appendice, superflua, messa lì solo per far rumore (e ne fece tantissimo) – regalò a Ultimo tango a Parigi un’aura maledetta che per decenni offuscò la sua imperturbabile grandezza filmica, quella per cui la leggendaria critica Pauline Kael usò simili parole nella sua oramai storica recensione del The New Yorker: «Questo, che è il più potente film erotico mai fatto, può rivelarsi come il più liberatorio film mai realizzato».
E a conti fatti lo è. Un’opera dalla primitiva forza propulsiva di erotismo pungente, di sesso senza amore e senza senso reso da Bertolucci in una regia intima ma priva di ardore (oltre che di romanticismo), che è estasi claustrofobica e folle, innaturale, di orgasmi catartici resi possibili dalla criticità delle quattro mura dello squallido appartamento parigino in cui Paul e Jeanne rammendano le ferite dell’anima inferte loro dal conformismo del mondo reale: il fresco dolore della moglie Rosa (Veronica Lazar) morta suicida di Lui, la relazione vuota e meta-cinematografica con il giovane regista Tom (un grande Jean-Pierre Léaud gemellare all’Alphonse del truffautiano Effetto notte) di Lei. Nel mezzo (purtroppo) c’è lo stupro sodomizzante della scena del burro che per quanto di finzione fece piangere per davvero l’allora ventenne Maria Schneider: «Mi sono sentita umiliata, e a dire il vero un po’ violentata, sia da Marlon che da Bertolucci».
In sceneggiatura, in realtà, risultava esserci una sequenza violenta. Nessuno parlò mai di una simile dinamica e men che meno del burro usato come lubrificante: «Non era nella sceneggiatura originale. Me ne hanno parlato solo prima che dovessimo girarla. La verità è che avrei dovuto chiamare il mio agente o chiedere al mio avvocato di venire sul set perché non puoi costringere nessuno a fare qualcosa se non è nella sceneggiatura, ma all’epoca non lo sapevo». La manipolarono, facendo leva sull’ingenuità tipica di una giovane attrice che muove i suoi primi passi nel cinema che conta, ma Ultimo tango a Parigi segnò indelebilmente la carriera della Schneider: «Non volevo essere una star né una sex symbol, né tanto meno essere un’attrice scandalosa: volevo semplicemente fare cinema». Ed era cinema Maria Schneider. Spiritosa, affascinante, e con quella verve tipica di chi sapeva di poter prendere a morsi il mondo.
Michelangelo Antonioni, regista tra gli altri de L’Avventura e de L’Eclisse, che delle dinamiche relazionali alla base de Ultimo tango a Parigi ebbe a dire: «Non mi indigno per niente, ma un uomo e una donna possono combinare insieme molto di più di quello che si vede nel film di Bertolucci», provò a riabilitare la Schneider nel ruolo della selvaggia e virgiliana donna senza nome di Professione: Reporter, ma servì a poco. A sei anni da Ultimo tango a Parigi si ripeté lo stesso copione. Presentatole il progetto come un ambizioso peplum kolossal, fu scritturata in Caligola di Tinto Brass (ebbe la meglio sulla più quotata Isabelle Adjani in corsa per il ruolo), per poi fuggire dal set dopo aver girato una scena di sesso con Malcolm McDowell parecchio spinta: «Sono un’attrice, non una prostituta!».
Nonostante fosse uno degli ideatori della scena del burro, nemmeno a Brando le cose andarono per il meglio sul set de Ultimo tango a Parigi. La criticità della sequenza ebbe un certo contraccolpo sullo status psicofisico del brillante interprete (qui in una performance intima ed esplosiva, caotica e paternale) che si rifiutò di girare una scena di nudo integrale prevista dalla sceneggiatura perché, usando le parole dello stesso Brando nella sua biografia (Brando: Songs My Mother Taught Me): «Il pene mi si era ridotto delle dimensioni di una nocciolina». Si iniziò a respirare un’aria strana sul set, di sensi di colpa inespressi, dolore e vulnerabilità, specie perché il naturale rapporto che si andò ad instaurare tra Brando e Schneider era più vicino all’affetto familiare che non alla feroce attrazione sessuale: «Sembri davvero mia figlia Cheyenne con la tua faccia da bimba».
Una tossicità talmente densa da fare a fette con un machete, che alla fine delle riprese, dopo aver visto il primo cut provvisorio, Brando andò in escandescenze affermando di non voler più prendere parte a progetti simili: «Non farò mai più un film come questo. Per la prima volta ho sentito una violazione del mio io più intimo, dovrebbe essere (e sarà) l’ultima». Su di lui Bertolucci affermò: «Era un mostro come attore e un tesoro come essere umano», ma gli effetti di Ultimo tango a Parigi furono talmente forti e impetuosi che i due non si sarebbero scambiati più una parola nei successivi quindici anni. In quel periodo successe praticamente di tutto. Presentato a Parigi il 14 dicembre 1972 per poi essere distribuito nelle sale italiane il giorno successivo, nemmeno due settimane dopo Ultimo tango a Parigi sarà sequestrato per «Esasperato pansessualismo fine a sé stesso».
Da qui ebbe inizio un intricatissimo iter giudiziario che portò a una sentenza di primo grado il 2 febbraio 1973 che permise a Ultimo tango a Parigi di essere dissequestrato e ri-proiettato nelle sale italiane (oltre che internazionali) dopo un vizio di forma che ne annullò gli effetti. Il 20 novembre 1974 si tenne un secondo processo d’appello che portò, infine, il 29 gennaio 1976, ad una sentenza della Cassazione che condannò Ultimo tango a Parigi alla distruzione della pellicola. Nella sentenza il produttore Alberto Grimaldi, lo sceneggiatore Franco Arcalli, Brando e Bertolucci, furono condannati a due mesi di prigione con la condizionale. Il regista, inoltre, per oltraggio al comune senso del pudore, fu privato dei diritti civili per cinque anni (tra cui il diritto di voto) e condannato a quattro mesi di reclusione (sempre con la condizionale). Due copie della pellicola (oggi alla Cineteca Nazionale) furono conservate come corpo del reato.
Circa sei anni dopo, nell’ottobre 1982, una delle copie fu trafugata e proiettata a Roma durante la rassegna Ladri di cinema: gli organizzatori furono denunciati. Al processo penale furono assolti, riabilitando (indirettamente) Ultimo tango a Parigi agli occhi della legge come non più opera proibita. Il tempo la rivitalizzò. L’evoluzione dei criteri di giudizio resero le scene ritenute inaccettabili come necessarie per la drammaticità dell’opera. Nel 1987 la censura riabilitò il film permettendone la distribuzione nelle sale (e in seguito il passaggio televisivo). Con i suoi 87 miliardi di lire è il più grande incasso della storia del cinema italiano per numero di biglietti staccati (oltre quindicimila spettatori paganti) secondo soltanto a Guerra e pace del 1956 diretto da King Vidor. In Francia, Regno Unito e Norvegia fu pesantemente censurato e distribuito in una manciata di sale, in Spagna verrà invece censurato fino alla caduta del regime franchista.
In Portogallo verrà similmente soppresso finché, dopo il colpo di stato passato alla storia come Rivoluzione dei garofani del 1974, la sua prima nazionale divenne un esempio della libertà di parole e di espressione consentita dalla democrazia. Oltreoceano Ultimo tango a Parigi non se la passò tanto meglio. All’indomani dello scandalo giudiziario la Transamerica Corporation fece pressioni affinché venisse rimosso il loro nome dal logo della United Artists. La sezione newyorchese della National Organization for Women denunciò il film come strumento di dominazione maschile. Nel 1982 fu infine ridistribuito con una classificazione censoria R che lo rese più agibile rispetto all’originaria classificazione X. In Canada l’Ontario Board of Film Censors approvò una versione ridotta da proiettare nelle sale. Non bastò: arrivarono oltre cento denunce soltanto dall’area di Toronto. In Nuova Scozia venne accusato di oscenità arrivando perfino alla causa legale (Nova Scotia Board of Censors v McNeil).
In Cile, Argentina e Venezuela fu bandito per oltre trent’anni, mentre in Brasile vedrà il buio della sala soltanto nel 1979. Eppure, e forse l’ondata di polemiche e scandali non sarebbe poi stata così tumultuosa, Ultimo tango a Parigi doveva essere diverso: poteva essere diverso. Se chiedete a Brando quale fosse, secondo lui, la ratio filmica dell’opera, la spiegazione che vi avrebbe fornito era una e una sola: «La terapia di Bernardo Bertolucci». Nella mente del regista de Il conformista, infatti, la narrazione prese piede nella forma di una fantasia sessuale: «Immaginai una bellissima donna senza nome, per strada. Immaginai di fare sesso con lei, senza mai sapere chi fosse», solo che nel primissimo draft non erano affatto un uomo e una donna il centro della torbida relazione clandestina nell’angusto appartamento parigini semi-vuoto, ma due uomini.
Cosa che, all’indomani dal rilascio in sala, secondo Ingmar Bergman avrebbe reso Ultimo tango a Parigi un film migliore: «Come è ora non ha senso come film. Non penso si tratti davvero di un uomo di mezza età e di una giovane ragazza, ma di due omosessuali. Se ci pensi in questi termini il film diventa interessante» – a cui l’allora trentaduenne Bertolucci rispose in merito – «Accetto tutte le interpretazioni di tutti i miei film ma l’unica realtà è quella davanti alla telecamera, ogni film che faccio rappresenta per me una sorta di ritorno alla poesia, o almeno, a un tentativo di creare una poesia». Propose il progetto alla Paramount Pictures (Il conformista fu una loro produzione) che però si mostrò poco interessata. Contemporaneamente Grimaldi – che de Il conformista si innamorò immediatamente – si rese disponibile a realizzarlo.
«Questo film la Paramount non te lo farà mai fare, quando avrai finito la sceneggiatura torna da me che lo faccio immediatamente» gli disse pressappoco, e così avvenne. Ottenuti i diritti dalla Paramount (Bertolucci era pur sempre un regista della loro scuderia) per 40.000 dollari, scelsero la United Artists come nuova casa di produzione. Per i ruoli principali furono contattati gli ex-Il conformista Jean-Louis Trintignant e Dominique Sanda – che pure parteciparono al processo creativo nel delineare la dinamica omosessuale dell’originale Ultimo tango a Parigi – ma che per un motivo o per un altro si tirarono indietro: «Scelsi due attori, Dominique e Jean-Louis. Lei rimase incinta. Lui non può spogliarsi o fare scena d’amore. Finisco con Maria e Marlon, grazie a Dio!». Infine arrivò Brando, quasi per caso, grazie a Christian Ferry della Paramount che organizzò un incontro con il divo all’Hotel Raphael di Parigi.
Si interessò immediatamente ad Ultimo tango a Parigi, specie dopo la visione de Il conformista per cui Brando ebbe a dire anni dopo: «Dopo averlo visto pensavo di aver trovato un uomo dal talento speciale». Invitò Bertolucci a casa sua a Los Angeles per parlare del film non prima di settembre visto che fino ad agosto era impegnato a New York con la lavorazione de Il Padrino. Alla base dell’interessamento però c’era qualcos’altro, almeno a detta di Grimaldi: «Ero in causa con Brando dopo che aveva abbandonato le riprese di Queimada cinque giorni prima della fine (costringendomi a riprendere il film solo due mesi e mezzo dopo). Lo chiamai e gli dissi: chiudiamo la causa e facciamo Ultimo tango a Parigi!» – per poi proseguire – «Gli diedi 250.000 dollari per il cachet, scandalizzando la United Artists».
Per il ruolo femminile invece, Bertolucci immaginava Catherine Deneuve come assoluta protagonista. A detta di Grimaldi però: «La Deneuve era troppo fine e gentile, serviva una ragazza più giovane e selvaggia». Arrivò infine la giovane (e in rampa di lancio) Schneider che rese suo malgrado Ultimo tango a Parigi un film memorabile dentro e fuori dallo schermo e al cui casting è associata una doppia sliding door: «In pochi lo sanno ma ho quasi rifiutato il ruolo di Ultimo tango a Parigi. Avevo un’altra offerta per recitare in un film (verosimilmente Notte sulla città) accanto ad Alain Delon ma l’agenzia a cui ero legata, la William Morris, mi disse: È un ruolo da protagonista con Brando, non puoi rifiutare! Non capì appieno il sottotesto sessuale del film, ero giovane e relativamente inesperta al riguardo, ma ebbi una brutta sensazione quando accettai la parte».
Ironicamente, dopo il ritiro di Trintignant, Bertolucci propose la parte maschile a uno fra Jean-Paul Belmondo (che dopo aver letto lo script definì Ultimo tango a Parigi pura pornografia rifiutandosi perfino di incontrarlo) e proprio Delon che accettò la parte a condizione di poter produrre egli stesso il film. Non se ne fece nulla, ma chissà cosa sarebbe successo se, al momento della scelta per Delon e Schneider, le cose fossero andate diversamente: un’altra grande pagina del nostro amato cinema.
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Qui sotto potete vedere una delle scene più belle del film:
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