MILANO – Prima, una riflessione: i film, fondamentalmente, si dividono in tre grandi categorie. Ci sono quelli che restano nel tempo e diventano dei cult; quelli che passano e vengono dimenticati; quelli che cadono nella terra di mezzo, non abbastanza forti (o fortunati) per finire nella prima categoria, ma troppo belli per ricadere nella seconda. L’ultimo boy scout fa parte proprio di loro, un film diventato cult solo per un certo numero di adepti, che si tramandano le battute a memoria e imitano Bruce Willis, ma che mai ha trovato un posto preciso nella storia del cinema. Forse paga il suo essere incatalogabile (un action comico? Una commedia violenta?) e l’essere venuto dopo Die Hard e Arma Letale, anche se dei due film prende il meglio ed è palesemente qualcosa d’altro.

«L’acqua è bagnata, il cielo è blu e le donne hanno i segreti. E chi se ne frega». Fintamente cinico, capace di un sarcasmo costante, anche in situazioni assurde, il detective Joe Hallenbeck di Bruce Willis è una sorta di aggiornamento di Marlowe agli anni Novanta, rielaborato però da uno che se ne intende. Chi è lo sceneggiatore de L’ultimo boy scout? Shane Black, piccolo grande genio, socio di Robert Downey Jr, l’inventore di Arma letale e di Last Action Hero, poi sparito per riemergere con Iron Man 3 e poi come regista su The Nice Guys con la coppia Russell Crowe e Ryan Gosling. Lo script è tutto suo, venduto per oltre un milione e mezzo di dollari alla Warner Bros che nella parte del protagonista voleva Jack Nicholson, non Bruce Willis. Sarebbe stato un altro film.

Black scrisse il film dopo due anni di ritiro, distrutto dalla fine di una relazione, ma si ritrovò nella battaglia tra Joel Silver, il produttore, Tony Scott, il regista, e lo stesso Willis. Tutti all’apice del successo, tutti con le idee molto chiare su come dovesse essere il film, tanto che poi lo script venne modificato. Il Joe Hallenbeck di Willis è una sintesi di tutto quello che aveva fatto l’attore fino ad allora: c’è l’ironia sferzante di Moonlighting, il machismo di Die Hard, e anche qualcosa di Hudson Hawk (un flop), tutto mescolato a un’attitudine nichilista molto simile proprio a un’altra invenzione di Black, ovvero il primo Martin Riggs di Mel Gibson in Arma Letale. «Era antipatico a qualcuno», dice sornione Willis davanti alla macchina dell’ex amico ora traditore Mike, fatta esplodere.

Rivisto oggi, a trent’anni di distanza (negli Usa uscì poco prima di Natale 1991) L’ultimo boy scout è ancora una giostra formidabile di ironia e azione, una detective story piena di spunti in una Los Angeles fotografata magnificamente da Ward Russell, che con Tony Scott aveva appena girato Giorni di tuono. Halle Berry era ancora nessuno e non stupisce invece che il buon Damon Wayans abbia fatto poi una fortuna con il suo potenziale comico (la serie Tutto in famiglia). Menzione a parte per l’apertura, con Bill Medley che canta Friday Night’s A Great Night For Football in televisione prima del frenetico montaggio in campo, sotto la pioggia (con Cole, il giocatore, che si inginocchia, take a knee, paradosso storico), puro Tony Scott che poi porta al vero inizio del film, in cui troviamo l’antieroe Hallenbeck dormire in macchina, vestito, con i tre ladruncoli che provano a rubargli l’orologio: «Questo è cotto», dicono. No, non proprio.
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