ROMA – No, se chiedete a Francis Ford Coppola, la saga de Il Padrino non avrebbe dovuto avere nessuna Parte, nessun sequel. La ragione è una sola: «Ho sempre pensato che Il Padrino fosse un film perfettamente valido, compiuto, e concludesse tutti gli aspetti della storia: risolveva il personaggio ed era davvero pensato per essere un film unico». Di parere contrario la Paramount Pictures che dopo i quasi 300 milioni di dollari d’incasso del capostipite della saga mise in cantiere Parte II senza pensarci troppo ed è lo stesso Coppola a dirlo in modo chiaro e netto: «È diventato solo un secondo e un terzo per l’avidità della Paramount che voleva farne altri». Ma è un po’ più ampio di così il discorso, perché in realtà i primi vagiti creativi de Il Padrino – Parte II risalgono nientemeno che al 1971.
Avete capito bene. Prima ancora che Il Padrino arrivasse in sala e conquistasse il Mondo con le sue immagini filmiche – iconografie sacrali e poetiche della transizione tra Hollywood e New Hollywood, passato e presente di quel tempo, cinema moderno e postmoderno americano – la Paramount diede mandato all’autore del romanzo originario del 1969, Mario Puzo, di lavorare allo script di un’ipotetica Parte II intitolato La Morte di Michael Corleone. Vale a dire, ciò che sarà poi Il Padrino – Parte III, poi rimontato e ricalibrato da Coppola nel 2020 in occasione del trentesimo anniversario del film sotto il titolo di Il Padrino, Coda: La Morte di Michael Corleone. L’idea fu poi scartata in favore di qualcosa di ancora più ambizioso. Perché, pur lavorandoci controvoglia, ma Coppola voleva davvero superarsi con la Parte II.
«Volevo giustapporre l’ascesa della Famiglia Corleone sotto Vito con il declino della famiglia sotto suo figlio Michael. Ho sempre voluto scrivere uno script che raccontasse la storia di un padre e di un figlio alla stessa età. Erano entrambi trentenni e avrei integrato le due storie. Per non rifare semplicemente Il Padrino, ho dato a Parte II questa doppia struttura in parallelo» disse Coppola, ma non è solo di scarti temporali e di storie parallele ma ad inerzia opposta che parliamo. Si, l’ascesa e la caduta dei Corleone, ma anche una storia di vendette secolari e guerre di mafia dalle mosse calcolate, di ruoli e di destino, di retaggio e conseguenze, lasciate vivere da Coppola in una narrazione dall’andamento armonico che trova nelle sue immagini pure, sacre ed epiche in dissolvenze incrociate tra passato e presente narrativo, impareggiabili legami sintattici che ne vanno ad amplificare, a dismisura, l’eco filmico.
Perché in ognuna di queste scansioni, tra il glorioso passato del Sogno Americano di Vito tra Corleone e New York (e ritorno) – tutto recitato in siciliano – e l’oscuro presente di Michael, Il Padrino – Parte II si sviluppa e si ramifica svelando al suo interno un cuore narrativo fragile e violento che è riflessione antropologica sugli uomini e le loro pulsioni. Tutto gira intorno al potere, infatti, nella narrazione intessuta da Coppola. Il potere e la sua rincorsa, ricerca e brama. Come nel passato, tra Don Fanucci (un sensazionale Gastone Moschin) e Vito e con loro del violento passaggio di consegna del ruolo di boss di Little Italy. Ma soprattutto nel presente narrativo, tra il magnate Hyman Roth (Lee Strasberg) e Michael e quello interno ai Corleone tra lo stesso Michael e Fredo, ovvero il vero cuore de Il Padrino – Parte II.
Lontano dal confronto a distanza – narrativo e temporale – tra due formidabili Robert De Niro e Al Pacino – che de Il Padrino – Parte II sono la principale attrattiva e gli storici volti di copertina – c’è quello silenzioso con John Cazale. E lo è stato per tutta la carriera – silenzioso – Cazale. Nel coppoliano La Conversazione come in Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet (sempre in coppia con Pacino nda) e ne Il Cacciatore di Michael Cimino, Cazale è sempre stato il fattore aggiunto, la ciliegina luminosa su una torta quasi sempre buonissima. Qui, però, andò oltre. Perché è sua la scena madre del film: quella del confronto finale tra Michael e Fredo. C’è tutto il film, il cuore della saga e i suoi mondi caratteriali in quel momento.
Da una parte Michael e con lui il carico distruttivo di un ruolo, quello di Padrino, che lo ha visto costretto ad abbandonare i sogni di una vita felice, pacifica e legale con Kay (Diane Keaton) per prendere in mano le redini della Famiglia. Dall’altra Fredo e tutta la frustrazione, il dolore, la (mancata) accettazione e il senso di rivalsa di un fratello mediano che sceglie di voltare le spalle ai propri cari – e alla Famiglia – nel segno di una spasmodica ricerca di rispetto. Nel mezzo un Pacino misurato e in sottrazione e un Cazale assolutamente esplosivo che riuscì ad amplificare l’emotività del suo Fredo servendosi della fisicità e di un oggetto scenico come quella specifica sedia come diretta estensione del corpo. E questo ci porta proprio al titolo provvisorio (e rimandato) de Il Padrino – Parte II per come lo aveva immaginato Puzo.
Perché nel climax, stavolta, assistiamo alla morte spirituale di Michael Corleone. Li batte tutti Michael, sgomina ogni possibile nemico, ma perde anche le più importanti parti di sé: Kay, Tom Hagen e Fredo, gli ultimi pezzi della Famiglia. È solo alla fine, gli restano soltanto i ricordi, e con loro la totale accettazione del proprio retaggio e di un ruolo difficile, deviante, ma che ormai gli sta incollato addosso: «Non c’è dubbio che, alla fine del film Michael, dopo aver sconfitto tutti, se ne sta lì seduto da solo, un cadavere vivente. Non c’è modo che quell’uomo cambi mai. Ammetto di aver pensato a un tocco di ottimismo alla fine, ma l’onestà – e Pacino – non me lo hanno permesso» dirà Coppola al riguardo. Un’opera complessa, Il Padrino – Parte II, stratificata, meno iconica e importante del predecessore eppure significativamente più intensa in termini narrativi.
E non intende smettere di stupire Il Padrino – Parte II, nonostante sia prossimo al cinquantennale – il film fu distribuito nelle sale statunitensi il 12 dicembre 1974 – la prova del tempo ci ricorda (come se ce ne fosse bisogno nda) come quello di Coppola sia un capolavoro incontrastato. Eppure nato per necessità, perché se la Paramount aveva le idee chiare su Parte II, lo stesso non può dirsi per Coppola che inizialmente – dopo l’esperienza tutt’altro che felice sul set del predecessore – ne avrebbe voluto curare la resa per immagini nel doppio ruolo di produttore e co-sceneggiatore con Martin Scorsese alla regia. Di parere contrario gli executives della Paramount che non avrebbero mai rinunciato a Coppola e alla sua visione. Così accettò di tornare dietro la macchina da presa per Parte II, ma a una condizione. Anzi quattro.
Che Parte II fosse direttamente interconnessa a Il Padrino – cosa che non fece che amplificare il valore narrativo del dittico –, che la Paramount desse il via libera produttivo a La Conversazione (Palma d’Oro a Cannes 27), che gli fosse consentito di dirigere una produzione teatrale per la San Francisco Opera, ma soprattutto che potesse occuparsi della stesura dello script de Il Grande Gatsby. Tutte accettate in blocco. Gli fu data carta bianca creativa totale, con il risultato che la lavorazione fu caratterizzata di continui rallentamenti a causa del suo ritmo registico paziente. La cosa piacque poco a Pacino che su quel set fu un’autentica mina vagante. A poche settimane dall’inizio della lavorazione de Il Padrino – Parte II, i suoi avvocati fecero avere a Coppola e Paramount una lettera in cui fu chiesta una riscrittura totale dello script, in caso contrario avrebbe lasciato il film.
Coppola ci lavorò su per tutta la notte e il pericolo fu scongiurato, ma per tutta la durata delle riprese fu una spina nel fianco tanto da lamentarsi continuamente del ritmo registico: «Serpico l’abbiamo girato in diciannove giorni!» urlò una volta sul set a Coppola. Qui ce ne vollero centoquattro. De Niro, invece, fece perfino di peggio. Ci credeva talmente poco nel successo del film (incasserà “appena” 96 milioni di dollari nda) che finite le riprese si recò al più vicino ufficio del welfare per richiedere il sussidio di disoccupazione. Ironia della sorte, Vito Corleone gli varrà l’Oscar 1975 per il Miglior attore non protagonista (ne vincerà sei Il Padrino – Parte II, compreso Miglior film e Miglior regia), aprendogli le porte del ruolo che lo consegnerà di diritto all’immortalità artistica: Travis Bickle, Taxi Driver, ma ci arriveremo…
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